Alla Galleria Russo di Roma
Laboratorio Balla
Una bella mostra fruga nei segreti di Casa Balla, l'abitazione-studio-laboratorio del grande pittore che ha attraversato tutto il primo Novecento italiano. Una parabola intensa e fondamentalmente malinconica, che parte dalla fotografia, passa per il futurismo e finisce per preconizzare la Pop Art
Come nasce, impara a riconoscersi, lavora, trova il successo, precipita, cambia, si perde e si ritrova nell’arco della sua vita un pittore incoronato tra i maestri mondiali del Novecento, cui ancora il linguaggio della contemporaneità paga dazio, spesso senza neanche saperlo? Dall’uomo all’artista e viceversa. In questo percorso si evidenzia il valore aggiunto della mostra, in cartellone fino a maggio, nella Galleria Russo di via Alibert, dietro piazza di Spagna, a Roma, che rende omaggio a Giacomo Balla (1874-1958), torinese trapiantato a Roma, uno dei padri fondatori del Futurismo.
È una sorta di anticipazione della miniera di sorprese, scoperte, informazioni, suggestioni, che ci riserva l’imminente, apertura al pubblico di Casa Balla, il grande appartamento di via Oslavia, alle spalle di piazza Mazzini, dove il pittore traslocò la sua officina creativa e visse per quasi trent’anni, fino alla morte, insieme alla moglie Elisa e alle figlie Elica e Luce. Modellando quel labirinto di stanze a misura del suo talento di artista totale: lampadari, mobili, arredi, affreschi, pareti tappezzate dai quadri che aveva conservato o non era riuscito a vendere, librerie e cassettiere ingolfate da centinaia di disegni, schizzi, appunti, abbozzi di opere in lavorazione, armadi pieni di giacche e abiti che lui stesso aveva inventato e realizzato.
Il via, Covid permettendo, è fissato per giugno, da un patto di collaborazione tra la soprintendenza e il Maxxi che sarà sigillato da una grande retrospettiva nel museo di via Guido Reni. E dalla promessa di una rilettura a tutto campo, destinata a superare le censure che Balla ha dovuto scontare per la sua adesione al fascismo, e i vuoti di una critica pigra e troppo allineata al mercato, che continua a osservare e raccontare la storia dell’arte e dei singoli artisti con lo sguardo obliquo, trasgressivo ed elitario delle avanguardie solo come un campionario di capolavori, un susseguirsi di fratture e balzi in avanti e non come il procedere ciclico e collettivo di influenze, mutamenti di gusto, umori e malumori, fragilità, ripensamenti, cambi di direzione, che segnano tutte le esperienze umane, anche quelle sul versante della creatività.
Trabocchetti e disattenzioni, che in gran parte il copione di questa mostra riesce ad aggirare, grazie al taglio espositivo imposto dal curatore, Fabio Bensi. Nonostante la sua scala ridotta: appena un’ottantina di pezzi, quanti ne può ragionevolmente contenere uno spazio di appena quattro piccole stanze. E nonostante i suoi espliciti ma non prevalenti intenti commerciali: tutte le opere sono in vendita e almeno un quarto, a giudicare dai bollini rossi accanto alle didascalie, sono stati già prenotati o acquistati.
Due gli accorgimenti più evidenti. Il primo è che tutti i materiali, molti inediti o poco visti, provengono da Casa Balla, dalla quota andata agli eredi che portano il suo cognome. Insomma il curatore li ha scelti visitando con rigore prima della spartizione quello studio di via Oslavia. Registrandone come note di uno spartito da decifrare le immagini e le voci che ancora vi risuonano in un inestricabile sovrapporsi di tracce d’arte e di vita. Già, perché la biografia di un artista è già scritta nel luogo dove abita e lavora. Ma è una pratica in controtendenza, a cui sempre meno ci si affida, perché tenersi aggiornati costa tempo e fatica mentre la fabbrica delle mostre impone tempi rapidi, meglio tirar le righe, evitando l’interferenza imprevedibile del fattore umano che smonta o contraddice teorie e pregiudizi.
Il secondo accorgimento è stato quello di cercare di sviluppare in ampiezza tutti i fili narrativi accumulati in Casa Balla, offrendo coinvolgenti bussole cronologiche e nuovi strumenti di riflessione e interpretazione.
Insomma un romanzo per immagini che trova non a caso il suo prologo nei due autoritratti esposti uno di fronte all’altro nella terza sala. Ne ha realizzati a decine Giacomo Balla. Ma in quei due volti che teneva in casa e che ora ci fissano ha davvero racchiuso una confessione che ci consegna in eredità l’intero arco del suo cammino creativo.
Il primo è del 1894. Giacomo aveva 23 anni. Lo dipinse sul retro di una fotografia di lui bambino scattata dal padre. Un supporto che è già un indizio, perché la fotografia è stata e resterà il ponte privilegiato per raggiungere e attraversare la realtà. I colori sono da interno nordico, cupi, una sinfonia di neri e di pennellate concise che inseguono i guizzi di luce. Un pittore che si interroga inquieto sul proprio futuro e sta sbocciando sotto l’evidente influsso dell’espressionismo di Munch.
Il secondo quadro è del 1940, pastelli su carta. Sotto la firma: Ball’Io. Le labbra sono arricciate su un sorriso tra ammaccato e beffardo, gli occhi nascosti e sbiaditi dagli occhiali, sulla fronte un’impietosa vertigine di rughe che si spegne in due onde di capelli bianchi arruffati. Il colore precipita in un ricamo di segni nervosi, simile alle impennate anarchiche in cui a inizio secolo sfarinava in modo originalissimo la sua impostazione divisionista. Il pittore ostenta orgoglio. Si è da pochi anni lasciato alle spalle il frastuono del futurismo come l’eco di una rivoluzione intorpidita e le giravolte dell’astrazione, la figurazione torna a sembrargli l’unica strada praticabile per affrontare la realtà, posare i piedi sulla scala mobile del proprio tempo.
Ha rotto con Marinetti cui da laico rimprovera la svolta bacchettona del manifesto per l’arte sacra del 1934, sta perdendo i contatti con i futuristi della seconda ondata, come Prampolini o Dettori che pure ha avuto come allievi, venti anni dopo aver dato scuola ai primi grandi pionieri del movimento in gestazione come Boccioni e Severini. Come artista si sta isolando, e andrà sempre peggio. Come uomo è in discesa: ha perso impeto, convinzioni, dubita del fascismo, nelle possibilità di un riscatto sociale non crede più.
Lo sfondo dell’ultimo autoritratto è una stanza di via Oslavia. Lo si capisce dai quadri che si intravedono alle spalle. Sotto un frullare di segni impazziti, che riportano in mente i graffiti con cui in cella i detenuti marcano la loro presenza e il trascorrere doloroso della noia e del tempo. Casa Balla certo è un tempio di grandezza e ricordi, la lavagna preziosa di una creatività che non si è esaurita. Ma assomiglia tanto, troppo a una prigione.
Un’oppressone claustrofobica cui questa mostra ci invita ad evadere con il repertorio di stupefacenti cimeli che ci raccontano il prima di questo slittamento umano. Magari per palati da iniziati ma illuminanti i fogli di schizzi che rievocano l’intenso lavoro da cui nasce uno dei cicli di opere più noto del Balla inizio Novecento: i Viventi. Ricordate quel capolavoro del 1905, La pazza: quel volto di donna ingolfato dal dolore, dall’impotenza, dalla furia di un dio sconosciuto e tiranno. Davvero emozionante scoprire che il quadro è come uno spezzone di film, preceduto da altre riprese, altri tentativi di inquadratura scartati. La donna con altri abiti, altre acconciature, altre ambientazioni: i vagoni di un treno, un viottolo recintato da muretti tortuosi. Avvincente capire che colpo d’ala sia stato decidere alla fine che quella scarmigliata figura dovesse recitare la sua parte su un balcone: la follia come un volo sospeso su un vuoto d’aria e di sole. Dalla fotografia parte anche la conversione al futurismo di Balla. Capolavori famosi come La donna sul balcone o Il cagnolino al guinzaglio si rivelano al confronto come trapianti in pittura delle esperienze sul movimento fissate negli scatti di Muybridge e Marey. Marinetti e compagni apprezzano ma non gli consentono la passerella delle prime apparizioni pubbliche del movimento: la rivoluzione impone il primato, non passa per l’imitazione di altri linguaggi.
Per imporsi come capofila Balla deve compiere una sterzata più radicale. E lo fa impegnandosi a trasformare le parole d’ordine del Futuro che incalza in un vocabolario astratto. Un alfabeto che prende corpo dalle vibrazioni di concetti, suoni, emozioni: studi e disegni, più ancora che i pochi quadri di questa fase, prelevati per la mostra alla Galleria Russo, dimostrano il rigore e la fantasia con cui Balla incamera e rielabora forme e segni, traiettorie e tangenti. All’inizio quasi facesse a coltellate con lo spazio, poi a poco come se lo accarezzasse per ammorbidirlo, assecondarne le curve.
Chissà, magari quel gusto per il design come manifesto di arte totale che comincia ad esplorare, fabbricando mobili o confezionando vestiti, misurandosi con la scivolosa anima delle stoffe. Un piacere nell’arrotondare le forme e giocare con più libertà col colore che è quel misterioso odore d’incenso che ti avvolge entrando a Casa Balla. Nel tempio di via Oslavia in cui dal 1929 si confina prima e dopo la sua abiura, ma davvero totale, al futurismo.
Un’avanguardia non può durare per oltre venti anni. Perde contatto con il proprio tempo. Per farlo e parlare a un pubblico ampio deve inseguire altri traguardi e altri miti. Come quello del divismo e del glamour cinematografico che il boom dell’industria di Hollywood e le riviste di moda esaltano come elisir. È in questa direzione che Balla piega le sue ultime prove di pittore. Mettendo in posa e dipingendo con giochi in controluce da fotografo di set o sfilate di moda le figlie, come nei due ritratti di Elica e Luce che la mostra esibisce in vetrina.
Un’intuizione quasi profetica che anticipa le esperienze del pop americano, sostiene con solidi argomenti il curatore Fabio Bensi, inaugurando un filone di studio su Balla singolare e spiazzante che certo sarà interessante approfondire. E comunque diventerà – c’è da scommetterci – una delle attrazioni a più alto gradimento della casa di via Oslavia che sta per riaprire al pubblico, imbottita di queste tarde prove di bravura ed eleganza d’artista. Lavori che a me – lo confesso – trasmettono il senso di malinconica e irrispettosa disfatta di un canto del cigno. Lo sberleffo di un uomo geniale uscito fuori rotta e fuori dal tempo.