Cronache infedeli
Dynasty Castro
Oggi si chiude il congresso che segna l'uscita di scena di Raùl, l'ultimo dei Castro: ma davvero Cuba è ancora un miraggio rivoluzionario? Come potrà sopravvivere al Covid il suo mito stanco? Tutti aspettano una nuova stagione di resistenza. Anche se pochi capiscono perché
«Fidel Castro – così scriveva tanto tempo fa Francisco Umbral – è una invenzione del ventesimo secolo, insieme al treno, al giornalismo, alla velocità, al sesso, alla bicicletta». Chissà che cosa scriverebbe oggi l’irriverente enfant scandaleux delle lettere spagnole: oggi, che il primo segretario del Comitato Centrale del Partito comunista cubano rinuncia definitivamente ad ogni carica pubblica, oggi che Raùl – l’ultimo dei Castro – esce di scena, saluta e si chiude nel bozzolo dei suoi 89 anni. Dunque: in pieno terzo millennio, Cuba è definitivamente orfana della dynasty caraibica che l’ha conquistata, governata, affascinata, incantata e fatta disperare per più di sessanta anni.
Dire addio a una storia: a questo serve in fondo l’Ottavo congresso del Partito comunista che si è aperto all’Avana tra marcette, squilli di tromba e bandiere rosse. Nonostante la dose massiccia di retorica allegria, questo è dunque un appuntamento funereo, come funereo fu cinque anni fa il Settimo congresso che sancì il pubblico addio a Fidel Castro: il lìder maximo era allora ancora vivo: «vivo ma morto», per dirla ancora con Umbral, e ridotto a un fantasma che sarebbe stato sepolto pochi mesi dopo.
Con una differenza, rispetto al 2016: oggi al desolato tavolo della politica siede un ospite ingombrante e non invitato: la pandemia del virus, che da quasi un anno ha svuotato l’isola di turisti e valuta pregiata, e ha messo la gente, el pueblo, di fronte allo specchio spietato della vita quotidiana: la cronica carenza di beni di prima necessità, la penuria diffusa, i traffici di pura sopravvivenza, la vertigine burocratica e il vuoto conformismo politico.
Reggerà Cuba a questo ennesimo tifone? Negli anni Novanta del secolo scorso, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il regime si trovò di fronte all’ipotesi di un crollo fatale e imminente. Ne uscì – con la famiglia Castro – modellando l’intera comunità sullo schema del pauperismo di Stato. Quello che è passato alla storia come periodo especial fu un lungo passaggio di lacrime e sangue, di ristrettezze economiche e di inesorabile controllo politico su ogni espressione della vita sociale.
C’era Fidel, in quel modello, ma c’era tanto Raùl: l’uomo che nell’ombra – e fin dai tempi della Sierra Maestra – aveva plasmato e cementato i due architrave della rivoluzione e del mantenimento in vita dell’ esperimento comunista: il partito e le forze armate. Il Partito garantisce l’ortodossia e la vigilanza, i militari assicurano la sopravvivenza economica del regime, innestati come sono – nei più alti gradi – al vertice delle aziende di Stato che controllano la gestione e i profitti dell’industria turistica. Dove una volta dominava lo zucchero con la sua retorica rivoluzionaria e contadina, domina oggi il turismo con i suoi grandi alberghi sulla spiaggia e la favola del bel vivere caraibico. Ecco dunque che il sessanta per cento dell’economia cubana, il settanta per cento del commercio al dettaglio e l’ottanta per cento del turismo sono sotto il controllo di Gaesa, il pachidermico gruppo imprenditoriale di Stato che è in effetti il Moloch todopoderoso delle forze armate.
E ripetiamo dunque: reggerà Cuba a questo nuovo tifone, generato dal combinato disposto dell’azzeramento pandemico del turismo e dell’addio all’ ultimo dei Castro? Manuel Diaz-Canel, lo sbiadito successore designato, è Presidente da tre anni e in questo periodo Cuba ha visto calare del 40 per cento le sue importazioni di derrate, carburante e materie prime, mentre lo scorso anno l’economia ha scontato un tracollo di undici punti. E l’isola importa oggi più del sessanta per cento del cibo che consuma: questo significa fame. Un disastro, a cui il vertici del partito cercano di reagire agitando l’ennesimo drappo rosso della retorica: il vaccino autoprodotto Soberana, che dovrebbe garantire alla popolazione l’effetto gregge e consentire il libero e sicuro accesso dei turisti stranieri.
Strategia: resistere e ancora resistere. Cuba è specialista della resistenza e tutta la sua stentata vita è stata una resistenza continua. Ma a che serve ormai questa resistenza? Unico esempio al mondo, questa isola splendida e sventurata è chiusa da sessanta anni dentro una bolla spazio-temporale. L’embargo americano (il bloqueo) poteva aver senso per Washington sessanta anni fa, quando L’Avana appariva il focolaio di una infezione comunista nel quadrante sud del pianeta, ma oggi è solo un esempio di decrepito accanimento. Sul fronte opposto, le parole d’ordine del regime sono le stesse della lontana epopea del Granma, e la ricerca del sacro Graal del comunismo si riduce oggi al testardo ammonimento con cui Raùl ha aperto i lavori del Congresso, quando ha esortato il partito a combattere per «la fermezza ideologica».
Una bolla “spazio temporale” che galleggia sulle tumultuose maree dei tempi contemporanei: sono passati Kennedy e Gorbaciòv, dalla Piazza della rivoluzione è passato Karol Wojtyla, sono passate le speranze di Obama e le minacce di Donald Trump, il Papa argentino invecchia in Piazza San Pietro, eppure permane la maledizione primigenia degli anni Sessanta e Cuba, generazione dopo generazione, si ostina a rimanere se stessa nel sogno di quello che era una volta.
E la vita quotidiana? Leggo la dolente cronaca famigliare del giovane scrittore Carlos Manuel Alvarez (La caduta, edizioni Sur, 2020) e trovo gli stessi accenti del capolavoro L’Avana per un infante defunto che nell’81 il grande Guillermo Cabrera Infante scrisse dall’esilio. Un resoconto desolato, con in più il senso di stanchezza di resa e di rabbia che viene da mezzo secolo di immobilismo, rigido controllo sociale, impari lotta di tutti i giorni con la fatica del sopravvivere.
E quanto costa non rinunciare al diritto di critica lo racconta lo stesso scrittore, quando denuncia: «Nell’ultimo mese sono passato per quattro interrogatori, tre brevi detenzioni, una fuga dalla polizia politica, tre o quattro programmi televisivi e vari articoli di giornale dove vengo diffamato, vigilanza costante, continue chiamate anonime al mio cellulare che funzionano come avvertimenti…».
Nulla si attendono i cubani da questo congresso. Eppure l’appuntamento è in qualche modo storico: con l’incoronazione del sessantenne Diaz-Canel si conclude infatti il sofferto trasferimento del potere dai veterani della rivoluzione alla generazione nata dopo il glorioso 1959. L’Ottavo congresso del Partito comunista si chiude il 19 aprile, sessantesimo anniversario della battaglia di Playa Giròn, quando i miliziani della giovane rivoluzione respinsero l’invasione dei mercenari nella Baia dei porci. Di quel giorno eroico, di quell’epica stagione, di quei giovani ardenti, nulla rimane e nessuno è più vivo. Oggi esce di scena Raùl, l’ultimo superstite, e dietro di lui cala il sipario.