“L'ultimo dei Comanche” di Nathalie Bernard
Frontiere invisibili
Non una biografia storica, ma un romanzo basato su avvenimenti realmente accaduti ad Adobe Walls tra 1870 e il 1880 e culminati con la sconfitta dei nativi americani. I sopravvissuti della varie tribù furono da allora costretti a vivere nelle riserve
“Dove stai andando?”, questo è il saluto in uso presso i Nokoni, che in lingua comanche significa “gli Erranti”. Da questa formula si può commisurare la distanza che separa gli indiani della cultura euro-americana. La realtà del West è assai diversa da quella “mitica” della retorica tradizionale che conosciamo attraverso le immagini stereotipate di brillanti e avventurose vicende di cowboy, diligenze, indiani, prostitute e saloon. Gli uomini che abbandonarono il vecchio mondo soprattutto nei primi decenni dell’Ottocento attraverso travagliati e pericolosi viaggi per mare, si impegnarono in una progressiva colonizzazione dell’immenso territorio al di là dei monti Allegani già prima della guerra d’indipendenza. Anche le donne parteciparono a questa migrazione soprattutto dalla metà del secolo, quando le febbre dell’oro sconvolse le piste della California e del Nevada. Il mondo che si trovarono ad affrontare era sconosciuto e ostile e connotato da un contesto umano prettamente maschile. “Frontiera” per il modo in cui avvenne l’espansione nel West ha assunto nel tempo il significato di orizzonte che avanza e si dilata insieme alla vita di chi tendeva a esso.
I conquistatori travolsero con arroganza e violenza i nativi americani, considerati parte di un ambiente non civilizzato, pre-umano o comunque pre-civile. Sicuramente gli indiani avevano modi di vivere, di considerare l’habitat in cui erano nati e vissuti dall’inizio dei tempi, convenzioni sociali e morali completamente diversi dai bianchi e quindi non solo non venivano rispettati ma l’idea di assimilarli o di una convivenza a parità di diritti non era neppure pensabile.
Questa dimensione contraddittoria e complessa emerge con forza e chiarezza in un’appassionata narrazione ne L’ultimo dei Comanche di Nathalie Bernard (La Nuova Frontiera Junior, trad. Claudia Romaguolo, 310 pagine, 16,90 euro). La vita di Quanh Parker, figlio del capo indiano Peta Nocona e di una ragazza bianca dagli occhi grigi, rapita da bambina dai Comanche, non è, come spiega l’autrice, una vera e propria biografia storica, ma un romanzo basato su avvenimenti realmente accaduti come le battaglie fra bianchi e indiani lungo il fiume Pease, ad Adobe Walls, con l’uccisione di circa quindici milioni di bisonti americani tra il 1870 e il 1880 da parte dei conquistatori bianchi e la sconfitta finale, che costrinse le varie tribù indiane sopravvissute ai massacri ad accettare la reclusione nelle riserve.
Il protagonista parla in prima persona e il mondo che descrive colpisce come un pugno per il rispetto della natura, degli animali, degli esseri umani che questo popolo definito selvaggio aveva, a differenza dei predatori bianchi. «Prima della riserva – racconta il protagonista – avevamo a disposizione territori sufficientemente distanziati gli uni dagli altri, che garantivano a ciascuno tutto lo spazio di cui aveva bisogno. Noi siamo abituati a rispettare delle frontiere invisibili». I conquistatori non rispettarono mai gli accordi presi. Da che mondo è mondo, tra quel che si racconta e ciò che davvero è accaduto, corre sempre una certa differenza.