Al via le celebrazioni on line
Roma che suona
L'Accademia Filarmonica Romana compie duecento anni. Ripercorriamo la storia gloriosa di un'istituzione che ha trasformato la cultura musicale della capitale, accompagnandola dalla tradizione classica a quella contemporanea
Una storia gloriosa e travagliata, animata da geniali artisti e da organizzatori tenaci, da blasonati e da politici, da idealisti e da pragmatici. Una storia attraverso la quale leggere in filigrana quella di Roma, prima papalina, poi Capitale d’Italia, tramortita dal fascismo e dalle guerre del Secolo Breve, risorta nel ’45 e proiettata verso l’innovazione culturale e lo sperimentalismo. È la storia della Accademia Filarmonica Romana, tra le più antiche istituzioni musicali. In questo 2021 di clausura e smarrimento compie duecento anni e avrebbe voluto festeggiarli dal vivo con il suo pubblico. Le tocca invece riandare al suo passato da remoto, con una bella e malinconica serie di incontri-concerto sul proprio canale Youtube, appena avviati nel nome e nella rievocazione dei suoi più illustri numi tutelari, Liszt e Strawinskij (nella foto accanto al titolo).
Andrea Lucchesini, il direttore artistico, ripercorre in due “puntate” gli altrettanti secoli della Filarmonica, parlandone con il compositore Daniele Carnini, con il vicepresidente Marcello Panni, con la musicologa Mila De Santis. Partendo da quel 4 dicembre 1821, l’anno in cui muore Napoleone che Roma aveva conquistato ma che mai mise piede nella Città Eterna. La quale è nello stesso tempo ombelico del mondo e paesone, pochi abitanti in mezzo alla campagna e imprescindibile meta del Grand Tour. Una città musicalmente “asfittica”, ricorda Carnini. Così la creazione della Filarmonica risponde alla voglia di musica dei nobili capitolini, che pur impegnati in altro, di musica si intendevano e la facevano anche bene. Erano i “dilettanti”, protagonisti dei concerti, ai quali si affiancavano i contribuenti, leggi sostenitori economici, e i soci d’onore, ovvero i grandi della musica che all’Accademia davano lustro.
Come Rossini, a Roma proprio nel 1821. Non suonò mai alla Filarmonica, ma i “dilettanti” eseguirono in forma di concerto il suo “Guglielmo Tell”. E lo fecero con grande coraggio, sfidando con la storia della liberazione del popolo svizzero dal giogo austriaco la censura papalina. Che in altre occasioni intervenne o arrestando i soci sospetti, o addirittura sospendendo l’attività. Ma intanto cresceva, la Filarmonica, oltrepassando le serate animate principalmente da musica operistica, perché era il canto lo strumento alla portata di tutti. Mise le prime pietre di un archivio che mai fu chiuso e che le dà ora, ricchissimo nella sede definitiva di via Flaminia 118, ulteriore interesse. Cambiò innumerevoli volte lo statuto, a causa di intestine contese tra i soci e della necessità di aprire ai musicisti di professione. E soprattutto allargò il suo sguardo ai grandi compositori stranieri. Erano gli anni a ridosso della Unità d’Italia e cominciava a brillare l’astro di Sgambati, che fu allievo e poi amico di Liszt. Che dopo un primo soggiorno a Roma nel 1832, vi ritorna nel 1863, per sposare Carolina Wittgenstein. Le nozze non si fanno per il mancato annullamento del precedente matrimonio di lei, ma Liszt fa di Roma la sua casa, maturando qui il suo misticismo e divenendo abbé dei frati minori per investitura del Vaticano.
È il decollo della Filarmonica plasmata da Sgambati. Il compositore ungherese, suocero di Wagner, è il gancio per una serie di rapporti internazionali. Diventa socio d’onore dell’Accademia e lo saranno Mendelssohn, Verdi, Donizetti, Paganini. Il pianista italiano suona Beethoven, Liszt esegue per i soci Chopin e Moscheles. E arriva l’ora della Breccia di Porta Pia e di Roma Capitale. La Filarmonica riflette le tensioni della Città Eterna. Si schiera dalla parte dei Savoia legandosi alle élites che guidano Roma verso la transizione. Ovviamente perde i soci fedelissimi di Pio IX che si riconoscono nell’aristocrazia nera. Ma in pochi anni la città triplica gli abitanti, favorisce la speculazione edilizia, vede i blasonati proprietari di palazzi e terreni fare affari con i piemontesi. Sgambati solleticherà l’interesse di Margherita di Savoia per la musica creando il Quintetto della Regina e quando nel 1878 muore Vittorio Emanuele II la Filarmonica chiede ed ottiene di eseguire una messa in Pantheon per il re. Una consuetudine che diventerà annuale, ripetendosi in occasione del tragico assassinio di Umberto I e che per decenni costituirà l’evento principale dell’istituzione. Sgambati è nominato direttore della Filarmonica e lo sarà fino al 1896, poi avrà il ruolo di direttore artistico. Organizza anche le celebrazioni per il tricentenario di Pier Luigi da Palestrina.
Operazione disinvolta perché la Filarmonica non è avvezza a diffondere i musicisti del passato. Ma funzionale ad una allargata captatio benevolentiae: da parte dell’ambiente romano, di quello ecclesiastico e di quello legato a doppio filo con i regnanti. Sgambati morirà nel 1914: ma intanto la sua fama e la sua diplomazia frutteranno alla Filarmonica una sede: la Sala Sgambati in via di Ripetta. Verrà demolita durante il fascismo, insieme con l’Augusteo, realizzato nel ventre dell’attiguo mausoleo imperiale. E sarà, quello della sede, un altro dei nodi fatti e disfatti dell’Accademia. Che vagherà dalla Sala Pichetti al Collegio del Nazareno (sì, proprio dove ora c’è la sede del Pd) al Teatro Eliseo, dove approda negli anni Cinquanta. Fino alla neoclassica Casina Vagnuzzi (rimodellata sul nucleo rinascimentale dal Valadier e da Luigi Canina) e, per i concerti della stagione, al Teatro Olimpico, una sala da 1500 posti, adatta al pubblico sempre più allargato.
La sala Casella, in via Flaminia 118, rammenta nel nome il compositore che animò l’Accademia dopo la guerra. Fa suonare i più grandi artisti del Novecento, Hindemith, Petrassi, Britten, Malipiero, Messiaen. Fa conoscere a Parigi la musica italiana. Suona a quattro mani con Debussy, sostiene Mahler, organizza una tournée in otto città italiane del “Pierrot Lunaire” di Schoenberg. Dialoga con letterati a pittori (“Casorati è l’artista dal quale ho imparato di più”). Il suo internazionalismo non piace al Duce e forse anche per questo nel ’36 si demolisce la Sala Sgambati.
Alfredo Casella suona per la Filarmonica fino a un mese prima della morte, nell’aprile del 1947. E gli succede Adriana Panni, che lavora tenace portando a duecento i tesserati, organizzando un ufficio stampa, siglando l’accordo con il Comune per la Casina Vagnuzzi, con i giardini che ospitano la programmazione estiva dei concerti. Qui provano Berio e Hindemith. E Igor Stravinskij, che la Panni ha conosciuto alla Biennale di Venezia e che porta alla Filarmonica facendo eseguire a Roma per la prima volta il suo “Canticum sacrum”. “Gli piaceva l’ambiente familiare della Accademia – ricorda Marcello Panni che lo conobbe fin da bambino – A Venezia indossava una camicia nera e una cravatta chiara e spiegava che era la divisa dei surrealisti. Amava mangiare al ristorante di Giggi Fazi. Alla Filarmonica dirigeva metà concerto e poi affidava la bacchetta a Robert Craft. Non mi risulta che sia mai salito sul podio di Santa Cecilia. E ricordo l’ironia della moglie quando una sera non lo fecero entrare all’Opera perché non indossava lo smoking”.
Di Stravinskij l’incontro-concerto in streaming per il Bicentenario della Filarmonica reperibile su Youtube ha fatto eseguire da Marcello Simoni “Three Movements from Petrushka” mentre musiche di Casella sono state appannaggio del Trio Chagall. Di Liszt si possono ascoltare le pagine scritte per la figlia Cosima e l’Ave Maris Stella S506 composte durante il soggiorno romano. Il 25 marzo l’incontro in streaming sarà dedicato a jazz e musica popolare con Gabriele Mirabassi al clarinetto e Andrea Lucchesini al pianoforte. Aspettando il ritorno in sala e nei Giardini. E soprattutto gli applausi dal vivo.