Filippo La Porta
A proposito di "Sospeso respiro"

Versi dalla pandemia

Gabrio Vitali ha curato un'antologia di versi dedicati ai drammi e alle trasformazioni dovute al Covid. Nelle poesie di Alberto Bertoni, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Giancarlo Sissa e Giacomo Trinci le parole e gli echi di un tempo che ci ha trasformato

Veloce (e necessaria) premessa. Sono fondamentalmente un critico di prosa, anche se la poesia resta la mia passione segreta (in fin dei conti è una infiltrazione della musica nella letteratura, e la musica possiede una abbagliante immediatezza, radicata nei ritmi della natura e del corpo, capace di arrivare diretamente al cuore di tutti). Ma ho scelto di non parlare quasi mai della poesia – e specie della poesia attuale – per alcune ragioni che qui riassumo. Anzitutto perché già ho difficoltà a seguire decentemente la produzione debordante di prosa italiana contemporanea. Temo proprio di non farcela con i due milioni di poeti ufficialmente censiti in Italia (approssimazione per difetto!).

Inoltre il linguaggio della poesia dovrebbe essere il contrario dell’arbitrio – cioè parola esatta, unica, insostituibile – mentre la poesia italiana di oggi mi appare come il regno dell’arbitrio: un genere quasi senza pubblico e senza critica, dunque in via di estinzione, dove chiunque può autodefinirsi il «maggior poeta contemporaneo» senza tema di smentita (in Rete uno vale uno, ci ripete il mantra della democrazia digitale).

Infine: mi è sempre sembrato contraddittorio parlare di una poesia, spiegarla, tradurla in prosa e in discorso (la parafrasi a fini didattici è altra cosa). In essa infatti senso e suono, parola e musica, ritmo e significato risultano così intrecciati, che a volte mi chiedo se l’unica cosa possibile sia quella di mostarla, di indicare dove essa sia, di ripetere le sue stesse parole, rispettandone il nucleo inafferrabile e intraducibile.

Ho detto però che non parlo “quasi mai” di poesia, Dopo questa premessa vorrei commentare brevemente un libro di poesia uscito ora: Sospeso respiro. Poesia di pandemia (Moretti & Vitali, con percorso iconografico di Maria Cristina Rodeschini e riflessione antropologica di Mauro Ceruti), a cura di Gabrio Vitali. Nella prefazione il curatore, bergamasco, ricorda con accento foscoliano «la lunga sequela notturna dei camion riempiti di bare» che dalla sua città partivano «alla ricerca di un luogo dove trovar pace e sepoltura». Questa resta l’immagine più apocalittica della pandemia nel nostro paese. L’espulsione forzosa dei cadaveri dalla comunità, dalla loro piccola patria: una memoria spezzata, l’esistenza di una intera civiltà a rischio. Poi Vitali rievoca un’altra immagine, esattamente contraria: quella del papa che nella sera «silente e piovosa» del Giovedì Santo, entra solitario in una piazza San Pietro deserta, quasi per farsi carico di ricordare una idea di comunità come «possibilità di accoglienza, di reciprocità e di condivisione». Una immagine poetica. L’eretico Noventa, attratto dai poeti anonimi e involontari, scriveva che il poeta è «un modo di essere», non di fare: «non sono le poesie che fanno il poeta: non sono i quadri, o le statue, o le musiche che fanno l’artista». Ecco, nella “invenzione” visiva di quella solitudine estrema, in cui però l’intera umanità potrebbe rispecchiarsi e raccogliersi, e perciò sentirsi meno sola, papa Francesco è stato un poeta.

Ma dato che la poesia non è soltanto “sguardo” sulle cose, ma anche disciplina e cura della parola, tecnica e paziente artigianato, intendo segnalare i poeti presenti nel volume, che hanno scritto i loro versi intorno alla «condizione soffocante di apnea e di ansia che tutti abbiamo vissuto fisicamente e psicologicamente durante la pandemia del virus Covid 19», e che ancora stiamo vivendo. Per ragioni di spazio mi soffermo solo su una rosa ristretta di componimenti.

Di Alberto Bertoni vorrei “indicare” una poesia scritta a febbraio sulla scomparsa di Claudio Lolli: «In particolare mi ricordo oggi / il timbro di Claudio Lolli / mentre mi canta / senza chitarra perché / si è dimenticato il capotasto / che il mio mondo è un simulacro / perfettamente falso / che io di qui gli parlo / dei fantasmi che siamo». Un epicedio commosso, vibrante nella sua prosciugata semplicità, e che soprattutto parlando dell’amico cantautore parla di noi, della nostra attuale condizione, spettrale e inautentica. E poi un componimento appena dopo il primo giorno del contagio – 20 febbraio, giovedì – in cui nel ritorno in auto da Milano la partita dell’Inter sentita alla radio si mescola alla conversazione con un benzinaio che sarebbe dovuto tornare quella sera a Codogno, dove fu ricoverato il Paziente Uno: la quotidianità, opaca e distratta, viene incrinata da una pietas struggente e quasi insostenibile.

«Ma cosa emerge dall’emergenza?», si interroga con apprensione Giancarlo Sissa, e così risponde: «Dall’emergenza / emerge la certezza che non nel pensiero risiede la verità». Piuttosto, la verità abita lo spazio della poesia, di un pensiero cioè emotivo, capace di quella sintesi tra emisfero sinistro (analitico, razionale, sequenziale, digitale) e emisfero destro (sintetico, figurativo, analogico, metrico) di cui ci parla la neurobiologia. Il venerdì 17 aprile scrive: «Dovremo andare a far provviste, prima che torni buio. Cercare / mascherine in qualche farmacia. Piume di piccione restano / impigliate nella rete di metallo del balcone» Ecco, qui si dimostra che il linguaggio della poesia non è altro da quello d’uso quotidiano (non coincide con il “poetese”). Anzi, è quello stesso linguaggio d’uso quotidiano, però intensificato e messo a fuoco, alleggerito della zavorra degli automatismi.

Del diario “musicale” della pandemia di Giacomo Trinci trascrivo un distico quasi caproniano: «di questo mai, non s’era quasi accorto. / d’essere nato, inane, come morto» (Omuncolo). E anche «…è che frana il mondo …non io, non te, /neppure il mondo come appare, o è…/ non noi, che fingere sappiamo, in fondo…/ frana la frana, quel che ‘non tiene’, è il vero, / la frana in sé, la febbre che divora / che sviene e va, ma come disturbata / dal potere, che più non può, tenere…/ (…)» (L’ininterrotto). Non so se Trinci è ascrivibile alla famiglia dei neometrici, ma certo il suo purissimo endecasillabo – così come ce lo offre la nostra più alta tradizione – riesce a dire la nostra condizione (e la nostra percezione del presente) più e meglio di ponderosi saggi, a ricordarci la capacità di sintesi che è solo del linguaggio poetico: «(…) / come quando ogni istante batte il tono / smisurato del metro, e ci sostiene. / più importante sentire che capire, / torno capra, cagnolino e suono, / musichetta lontana senza fiato, / senza strumento alcuno / che non sia che sparire alacremente, / nella musica mondo, vita e mente» (sempre da L’ininterrotto).

«Siamo ancora vivi per una sera. / Quando passa la macchina / col megafono. Ed intima di stare a casa. Non pensiamo ad uscire / Il silenzio è assordante. Scelta obbligata. Mente inesorabile. / Il bollettino delle sei scandisce la fine dell’aria (…)». Con il suo ispirato poema Fiabucce per una madre (sette sezioni con 3 sonetti ciascuna, di cui il primo e il terzo cominciano con «Siamo ancora vivi…») Paolo Fabrizio Iacuzzi ci immette direttamente nel cuore tristissimo dell’infinito lockdown delle nostre esistenze. E quando riesce a incontrarsi con un amico per il tè delle cinque, entro un silenzio assoluto, annota che «Facciamo / rumore per inventarci il mondo». È vero, «siamo ancora vivi» (per caso, nonostante il confino, fino a quando?) pur in questa «desolazione degli affetti» e nella «mappa delle distanze». «Siamo ancora vivi per i nostri toast. Le sole fiabucce degli anni / quasi sessanta. Scritte col minio perché non venga la ruggine. / alla vita. Per salvare il salvabile. E l’allerta continua a tirare / tardi. Con i ragazzi da casa alla scuola senza poterne adottare».

Basterà «salvare il salvabile»? Sarà sufficiente mantenere l’abitudine del «tè alle cinque»? È come se Iacuzzi ci invitasse, silenziosamente e con pudore, a un salto ulteriore, e anzi a un “risveglio”, oltre la convalescenza e la “ghigliottina di polvere”, oltre le fiabucce e perfino oltre le maschere che abbiamo preparato per la fine del mondo. Chissà se noi sopravvissuti ne saremo capaci.

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