Una testimonianza sul Covid
Trentaquattro giorni
«Quando è iniziato tutto questo, non pensavo che sarebbe mai successo a me. Pensavo che il mio sistema immunitario avrebbe retto, perché sono giovane e la febbre non mi viene quasi mai. Infatti, non è successo a me. Avevo, ho, perso totalmente di vista gli altri»
Sono passati 34 giorni dall’ultima volta che ho visto mio padre. È il periodo più lungo che ricordi durante il quale non ho potuto vederlo. La volta che ci sono andata più vicina è stato nel 2018, quando sono stata in Irlanda per una vacanza studio di tre settimane. L’ultima settimana mi si era anche rotto il telefono e abbiamo comunicato via mail o con i telefoni di altre persone. Non mi era pesato più di tanto, perché alla fine ero in vacanza, e non sentirsi costantemente fa anche parte di quel tipo di esperienza.
Questa volta però non c’è nessuna vacanza, nessuna esperienza. Mio padre sta a casa, e ha il coronavirus. Ultimamente sempre più persone che conosco ci sono andate vicine. Abbiamo tutti quell’amico di cui il cugino ha visto un amico che è risultato positivo, tutti ci siamo presi uno spavento e ci siamo fatti qualche giorno di quarantena, o un tampone. A me personalmente è successo tre volte.
Il 22 ottobre ho dato il mio secondo esame, Introduction to International Relations, rigorosamente a distanza, e quella sera avrei dovuto vedere mio padre, era già una settimana che non ci vedevamo. Lo chiamo e mi dice di non andare, perché ha la febbre.
E da lì, il resto si può immaginare. Ci sono tante cose che potrei dire a proposito, potrei cogliere l’occasione per scrivere che dobbiamo mettere la mascherina, rispettare le misure, e comportarci bene. Invece vorrei parlare di qualcos’altro.
La sensazione che ho sentito di più in questo ultimo mese non è la rabbia, non è l’impotenza, non è la tristezza. È una sensazione che non riesco a nominare, per cui non riesco a dire tutto quello che vorrei. Mio padre lo sento tutti i giorni al telefono, e ogni volta ho l’impressione di non riuscire a dirgli tutto quello che vorrei, tutto quello che mi passa per la testa. Penso tante cose, e poi mi viene in mente solo cosa ho mangiato a pranzo, o che lezioni ho fatto oggi, se ho visto qualcuno, come sta il mio gatto. Poi, mentre faccio tutt’altro, penso che vorrei dirgli un sacco di altre cose, potrei prendere il telefono e chiamarlo, ma so che probabilmente l’unica cosa che mi uscirebbe sarebbe «come cucino il pollo?».
Sulla mia scrivania, sul modem, ho due post-it gialli. Sul primo c’è scritto «cose da fare dopo gli esami», sull’altro «cose che devo dire a papà».
Quando è iniziato tutto questo, non pensavo che sarebbe mai successo a me. Pensavo che sarei stata più forte, che il mio sistema immunitario avrebbe retto, perché sono giovane e la febbre non mi viene quasi mai.
Infatti, non è successo a me. Avevo, ho, perso totalmente di vista gli altri. Ai miei familiari non avevo neanche pensato. Cioè, sì, in assoluto, ma mai in concreto. Ma forse, pensare in concreto è l’unica cosa che ci permette di non perderci.
Senza entrare nella dialettica spicciola, ammetto di aver spesso peccato di superficialità. Ho un modo tutto mio di affrontare le cose, in quarantena non ho fatto che sperare. La speranza è un sentimento sacrosanto, ma non quando ti impedisce di vivere le cose, di affrontare le emozioni, di elaborarle.
Quello che ho fatto è stato rifugiarmi nella speranza per non vedere quello che stava succedendo, per permettermi di pensarla come una cosa che non mi riguardava, che sarebbe passata nel giro di qualche mese e pretendevo di uscirne senza nessuna conseguenza. Non so se imparerò qualcosa, non so se sarò diversa e se ne trarrò una lezione di vita. Sinceramente, penso di no. Ne uscirò probabilmente peggiore, ma non ne uscirò come se fosse tutto successo a qualcun altro.
Questi 34 giorni che continuano a passare, hanno lasciato qualcosa, un vuoto probabilmente, una lontananza, una ferita. Non so dirlo. Ma hanno lasciato qualcosa, e questo conta, in qualche modo.