"Povertà" a cura di Silvia Zoppi Garampi
Beati i poveri
«Per fare buon cinema - diceva Zavattini - bisogna essere nella condizione mentale del povero». Oltre a questi tempi difficili, ci aiutano a farlo gli atti di un convegno tenutosi a Napoli, al Suor Orsola Benincasa. Da San Francesco a Petrarca, da Machiavelli a Leopardi, da Verdi a Bilenchi, a Pasolini
Migliaia in coda per uno sfilatino. Anziani e famiglie in fila per ricevere un pasto caldo e un pacco natalizio. Sabato scorso, a Milano, erano in quattromila ad attendere un “ristoro” immediato, quello della onlus Pane Quotidiano. Una delle tante fotografie dell’Italia azzannata dalla pandemia, leggi anche disoccupazione. Faremo un Natale confinati in zona rossa o quasi. Lo impone l’evidenza tragica delle centinaia di morti giornalieri, soffocati. Mica un’ubbia del Cts. Sicché suonano stonate le proteste di chi non vuole farsi scippare cenone e tombolata coi nonni, i fratelli, le cognate, i cugini, i parenti (serpenti?) fino al terzo grado e oltre. Natale stavolta richiede rinuncia, riflessione. Magari appunto sull’avanzare impetuoso della povertà. Anzi, di Madonna Povertà, a voler rileggere San Francesco.
Allora utile è sfogliare il denso volume edito da Salerno, Povertà, appunto (451 pagine, 38 euro). Riunisce gli atti del Sesto Colloquio Internazionale di Letteratura Italiana, tenutosi nel maggio 2015 presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli. Un percorso avviato nel 2004 per monitorare di volta in volta un «lemma significativo trascelto nell’ampio corpus della letteratura italiana», spiega nella presentazione Silvia Zoppi Garampi, professore ordinario presso l’ateneo napoletano e curatrice dell’iniziativa. La quale avverte che è stata proprio la povertà a ritardare tanto la pubblicazione degli atti del simposio, anni serviti alla raccolta dei fondi. Ma tant’è: povertà è una parola che ha poche attestazioni nel Grande Dizionario della lingua italiana. Per quale motivo? Perché il dibattito sull’indigenza è stato «minoritario e di fatto un argomento poco presente alle culture dominanti». Poveri messi da parte insomma dalle democrazie occidentali, cittadini-tabù nonostante programmi (e proclami). È soltanto dal 2016 che viene istituita la Giornata Internazionale delle Nazioni Unite per l’eliminazione della povertà. Cade il 17 di ottobre, ma chi ricorda tra le persone comuni la ricorrenza? Certamente Jorge Mario Bergoglio, che ha scelto il nome del Poverello per occupare il soglio pontificio. Ha raccontato che durante il Conclave, quando ormai era evidente la sua elezione, il cardinale Claudio Hummes gli si rivolse con un «Non dimenticarti dei poveri», sottolinea Gaetano Di Palma nel saggio che analizza il senso della Beatitudine pronunciata da Gesù sui poveri.
Nel Bel Paese ricordiamo invece bene il 4 ottobre, giorno dedicato a San Francesco, Patrono d’Italia. È l’alfa degli interventi sulla presenza in letteratura del lemma scelto dal Colloquio e di conseguenza dal volume, che sulla copertina reca l’illustrazione del Matrimonio mistico di San Francesco d’Assisi e Madonna Povertà, dipinto su tavola attribuito a Domenico Veneziano. Di queste nozze parla appunto Vincenza Tamburri nell’intervento intitolato “Il matrimonio spirituale di Francesco con Madonna Povertà”. Sotto la lente della studiosa di filologia romanza un’operetta allegorica, di anonimo autore e incerta datazione, il primo scritto a narrare lo sposalizio del santo di Assisi con Domina Paupertas. Nel titolo le nozze sono definite “Sacrum commercium”: è lo scambio, il rapporto anche in senso amoroso. Dante lo riprende nel XI Canto del Paradiso, l’arte lo diffonde in svariate immagini, come l’affresco nella volta a crociera sull’altare della Basilica Inferiore di Assisi. La narrazione dell’anonimo dipinge il santo come un trovatore o un cavaliere errante della letteratura cortese: egli langue d’amore e va in cerca di Madonna Povertà, incontrandola infine in un tugurio nel quale la mensa è scarna, tuttavia abbondante il banchetto della gioia spirituale. Povertà per Francesco non è solo rifiuto di beni materiali ma anche gesto di fraternità umana. Così la dice lunga il prefisso comune tra le parole Caritas e Carestia. Del resto il Sacrum Commercium ha anche un risvolto economico perché Madonna Povertà promette ai suoi amanti una ricchezza di valore inestimabile. Il dono è il capitale di partenza, un bene che genera amore.
Il valore “positivo” della povertà, intesa come elemento di distinzione morale dell’individuo, percorre diacronicamente e tematicamente distanti espressioni culturali. Così lo ritroviamo nel “cinematografaro” (così si definiva) Cesare Zavattini. Ne parla Augusto Sainati (“Zavattini: dov’è la povertà?”) con una premessa: in tutta la produzione del poliedrico autore (non solo film, ma letteratura, pittura, saggistica) il tema della povertà è ricorrente. Nel suo cinema – nei soggetti per il cinema – quasi preponderante. Bastino i titoli: Darò un milione di Mario Camerini (1935), Il marito povero, Cinque poveri in automobile, È primavera, Miracolo a Milano, Umberto D, Sciuscià, Ladri di biciclette. I poveri non scendono in piazza, non vanno dal sindacato, non avanzano rivendicazioni di classe (è il proletariato ad avere coscienza di sé, dunque ad agire politicamente). Caso mai, se vogliono attuare una vendetta, lo fanno con la sola forza della immaginazione. Sì, un pensiero libero, un po’ da matti, però non oppressi da sovrastrutture, da manipolazioni. Oltretutto non hanno i doveri sociali dei ricchi, non lavorano, al massimo fanno cose per sé stessi, come quelli di Miracolo a Milano che tirano su un accampamento per abitarci e quando dal terreno esce uno zampillo di petrolio, lo usano per smacchiarsi i vestiti, non per fare affari. Anche il loro linguaggio è naif, ignora i doppi sensi: sempre in Miracolo a Milano, l’epilogo conduce i personaggi a volare a cavallo di un manico di scopa verso il regno dove «buongiorno vuol dire veramente buongiorno». I poveri, insomma, non fanno, sono. E così divengono centrali nella poetica di Zavattini, quella dell’antiromanzo. Nei racconti come nei film non deve esserci una storia preordinata, ma che si fa, «che coglie la vita nel momento stesso un cui la viviamo». Eroi, i poveri, ideali protagonisti. Il cineasta, come loro, vive al presente. Addirittura, il cinematografaro d’avanguardia Zavattini teorizza: «Per fare buon cinema bisogna essere nella condizione mentale del povero».
Pare un controsenso, ma anche Giuseppe Verdi idealizzava l’indigenza. Il suo però fu conformismo politico, non messaggio poetico. Antonio Rostagno in “Verdi e i poveri” avvia la riflessione dal cambio ideologico del musicista di Busseto. Nel 1850 abbandona Mazzini e si avvicina moderatismo liberale nella convinzione che siano i Savoia a poter unificare l’Italia. Ne consegue che anche i suoi poveri non siano rivoluzionari, la loro è una condizione diremmo esistenziale che non contempla condanna di classe né spinta all’elevazione sociale. Sono persone schiette, anime pure, mentre ricchi e potenti sono inevitabilmente portati alla sopraffazione. Del resto nell’Ottocento il povero non si configurava come un emarginato, ma come persona senza istruzione, dedita ai lavori manuali. Ecco l’idealizzazione dell’indigente in Luisa Miller (“Andrem raminghi e poveri/ove il destin ci porta/un pan chiedendo agli uomini..”. Ed ecco Gilda nel Rigoletto: “Signor né principe – io lo vorrei/ sento che povero – più l’amerei“ e il Duca risponde, travisandosi “Gualtier Maldé/studente sono…povero”. E poi Azucena nel Trovatore: “Giorni poveri vivea/pur contenta del mio stato/sola speme un figlio avea/ Mi lasciò! M’oblia l’ingrato”. Argomenta Rostagno: «Dalla rappresentazione che Verdi ne offre col suo teatro la figura del povero esce nobilitata, ma non emancipata, né alla classe della plebe viene riconosciuta una giusta causa di ribellione». Un modo per archiviare il problema da parte dei benpensanti.
Piccolo borghesi della provincia toscana avvelenati dalle liti familiari intorno all’osso troppo scarno. Sono questi i poveri di Romano Bilenchi (nella foto), evidenziati da Giovanni Piccioni nel saggio dal titolo “La miseria vibrava i suoi colpi uno dopo l’altro, uno più violento dell’altro”. Una citazione tratta dal racconto La miseria che con La siccità e Il gelo forma la raccolta Gli anni impossibili. È qui che l’abisso di avversità, capovolgimento di fortune, invidie e gelosie che ricorrono nella narrativa di Bilenchi trovano, scrive Piccioni, «il momento più alto e compiuto». La povertà materiale si riflette in quella dei rapporti umani, nel loro inaridimento. Un declino che fa rimpiangere al protagonista, una sorta di archetipo della narrativa di Bilenchi, l’innocenza e la felicità dell’infanzia, dove il nonno è il patriarca carismatico e affettuoso, la quercia salda che traccia la via del futuro. E che invece è travolto dagli accadimenti, ponendo il bambino di fronte alla deprivazione di affetti e di ideali che gli impone la realtà.
Di molti altri snodi letterari e civili danno conto gli Atti del Colloquio. Povertà declinata nel Petrarca e nell’Alberti, in Machiavelli e Tasso, e, nell’Ottocento, presente nel giurista Pagano, in Pascoli, Leopardi, Verga. Il Ventesimo secolo la include dai Crepuscolari a Ungaretti, da Capitini a Luzi, Betocchi, Turoldo, Scotellaro, Pasolini, invadendo la testimonianza religiosa del teologo Arturo Paoli. Per il quale povero è «parola terribile e temibile, eppure solo l’essere umano capace di contare su se stesso, sui suoi veri bisogni, sulle immense e sconosciute risorse interiori, è in grado di raggiungere un’identità reale».