Cronache infedeli
A casa Maradona
Visita guidata a Casa Maradona, a Buenos Aires, prima che diventi il museo delle bugie costruite intorno a un mito del calcio. Nella sua infanzia argentina c'è il destino di un Paese che ha prodotto continuamente “angeli dalla faccia sporca”
Quando il festival della retorica si sarà esaurito e quando il corpo dell’eroe verrà finalmente riconsegnato al silenzio della terra, bisognerà allora tornare a quella modesta casa di mattoni e calce al 2257 di Calle Lascano, nel quartiere Padernal, tra villa Crespo e villa Devoto, appena sotto i viali alberati e silenziosi del cimitero della Chacarita.
È la Buenos Aires di Borges: una scacchiera di case basse, marciapiedi corrosi dal tempo e strade sconnesse che si perdono dritte verso la piatta campagna. Nelle quattro stanze con cortile in cui Diego ragazzo abitò per due anni, dal 1976 al 1978, la reverenza del popolo ha voluto creare un piccolo museo della nostalgia. L’appartamento fu regalato ai Maradona dai dirigenti del club Argentinos Junior, la prima vera squadra in cui il ragazzo Diego cominciò a giocare a futbol sul manto erboso di un vero campo di calcio. E proprio lì vicino, a due passi da casa, sta il piccolo stadio – la cancha – che oggi è intitolato al suo profeta.
La numerosa famiglia del Pibe veniva da sud, dall’immondo purgatorio di Villa Fiorito, da quella baracca in cui «l’unica acqua corrente era quella che pioveva dal tetto», e traslocare in queste stanze dovette sembrare a tutti un dono del destino. E fu certo un trionfale ingresso nel mondo dei grandi per il pulcino, il cebollita, abituato a giocare in mezzo alle pozzanghere dei potreros dove ogni sfida può trasformarsi in rissa, abituato a correre e dar calci alla palla fino a che le ombre della sera non invadono il campetto sbilenco tra le baracche.
Tutto questo racconta la casa di Calle Lascano ai suoi visitatori: l’ampia cucina con le stoviglie ordinate e il salotto con pretese piccolo borghesi, il pavimento a mattonelle bianche e nere, i ninnoli sulla credenza, i poster, le coppe, i pupazzetti, i cuscini colorati sui divani. E la camera con il letto a una piazza, dove la nostra guida entra chiedendo silenzio, e mormora rispettoso: «Qui dormiva Diego». Di esagerato, questo piccolo altare laico porta soltanto il titolo: “Museo de D10s”, dove il magico numero di maglietta si intreccia con il nome del Padre Creatore, il “Barba”, come lo chiamava Diego ai tempi scanzonati della gioventù.
È un ritratto dell’artista da giovane, questa casa altrimenti anonima. E anche il ritratto di una stagione scomparsa, che a sua volta richiama un’altra stagione più remota, ma sempre presente nella memoria e nel cuore degli argentini più anziani. Il ragazzo Diego degli anni Settanta è l’ultimo esponente di una generazione di giovani calciatori che meno di venti anni prima Buenos Aires battezzò los angeles de la cara sucia, gli angeli dalla faccia sporca. Erano attaccanti, giocolieri del pallone, poco più che adolescenti, mocciosi irriverenti e sfacciati. I vecchi giornalisti sportivi di Buenos Aires ancora li ricordano: Corbatta (il Garrincha argentino), Cruz, Maschio, Angelillo e Sivori formavano una delantera di sogno che nel campionato sudamericano del ’57 castigò a suon di gol tutti gli avversari, compresi Uruguay e Brasile.
C’è tanta Italia nella storia del Pibe de oro, e c’è tanta Italia nella storia di questi remoti angeli che negli anni Sessanta diventarono oriundi e vennero a giocare e a guadagnare pane e gloria nel nostro paese. Enrique Omar Sivori con la casacca bianconera della Juventus, Antonio Valentin Angelillo con i colori dell’Inter, Humberto Maschio nello squadrone del Bologna. Erano altri tempi, e ingenui i peccati sociali, gli anticonformismi, gli scandali. Per lo scugnizzo Sivori, furono le risse in campo e i calzettoni abbassati sulle caviglie, per l’elegante Angelillo una tumultuosa storia d’amore con la soubrette italiana Ilya Lopez.
Diego Armando Maradona, si dirà, era altra cosa: unico nel campo di gioco e soprattutto nella vita. E già dagli anni Settanta il mondo – non solo quello del calcio – conosce una tremenda accelerazione che fa apparire preistoriche le figure e i personaggi di dieci anni prima. Già a Barcellona e poi a Napoli, Diego non è più il ragazzo spensierato di Calle Lascano, e questa figurina gonfia e triste che la retorica giornalistica accompagna oggi in un lugubre trionfo non è più l’allegro teppista da stadio che a Buenos Aires faceva impazzire i terzini avversari.
Bisognerà così sbrigarsi a visitarle, queste quattro stanze, perché con la morte l’intera vita del campione assumerà i contorni di una luminosa e bugiarda favola moderna e bisognerà certamente trovare un luogo più degno per le messe quotidiane del popolo adorante. La casa di Maradona diventerà forse simile al sontuoso Museo dedicato a Eva Duarte e che spalanca le sue porte non troppo lontano, in calle Lafinur 2988, nella zona elegante della capitale tra il Giardino botanico e il parco Las Heras: un palazzotto pretenzioso, una fuga di stanze illuminate, giochi di luce e costumi scintillanti, gigantografie e musiche patriottiche. Nulla di strano: Evita e Diego – l’attricetta di provincia e il funambolo di strada – condividono del resto lo stesso destino. Simbolo di un grande Paese dolente e senza pace, sono ambedue straordinari e infelici angeli dalla faccia sporca.