Andrea Carraro
A proposito de “L’ultimo turno di guardia”

Poemetto del dolore

Alberto Rollo, con il suo esordio poetico, si dimostra un autore denso e rigorosissimo, capace di emozionare con i suoi versi dedicati quasi a una nuova, terribile cognizione del dolore

Leggo colpevolmente poesia in modo discontinuo, ma un bel giorno, quasi inavvertitamente a me stesso, ho cliccato su un video promozionale della Manni editore in cui Alberto Rollo (famoso editor della Feltrinelli, ai miei tempi, e raffinato critico letterario su Quaderni piacentini, Linea d’ombra e altre storiche riviste, recentemente autore di un apprezzato romanzo di formazione Una educazione milanese), leggeva con vigore e fatica il suo bellissimo poemetto L’ultimo turno di guardia, appena stampato dalla Manni, appunto, e quella lettura poetica mi ha scosso, angosciato, emozionato, tanto da indurmi ad acquistarlo.

E la stessa emozione ho ritrovato a leggerli poi sulla pagina, quei versi drammatici, petrosi, “la petrosa cadenza”, come qualcuno li ha felicemente definiti, molto ritmati da rime insistite, irregolari, e assonanze, versi levigati dallo scalpello e dalla lima, in un lavoro accurato che è durato 25 anni, ci informano le note al volume, – con tutto il loro carico di sofferenza e di malattia e di morte… Sì nel poemetto, o monologo come preferisce chiamarlo l’autore, per rimarcarne la vocazione anche teatrale (fra le epigrafi troviamo Brecht, Eschilo, Wagner, Racine…), si respira fin dalle prime strofe, il senso di uno sprofondare lento nella malattia, il senso di una fine collettiva, epocale, il senso che la Storia, così come l’abbiamo conosciuta noi, è definitivamente tramontata dopo la caduta del Muro e tutto quanto lo ha seguito, “chi, felice e banale, /avrà l’ardire – scrive il poeta, – di chiudere i cristianissimi millenni/traendo una “morale”/dire, ecco/è finita la storia…”: che mi ha fatto pensare alla dopo-Storia pasoliniana de Le ceneri di Gramsci ma anche ad altri grandi poeti civili, a Franco Fortini, al conterraneo milanese Vittorio Sereni, a Roberto Roversi anche citato nella postfazione dell’autore, al quale aveva perfino mandato in lettura il poemetto senza ricevere risposta poco prima della morte; la postfazione dell’autore parrebbe quasi una prosecuzione dei versi, una sua esemplare appendice critico-didattica, e racconta la genesi dell’opera, e il suo sviluppo nel corso di due decenni e mezzo: “E fra gli anni novanta e i primi vent’anni del duemila non c’è strategia per sottrarsi ai rivolgimenti del tempo ma dentro un rallentamento progressivo della Storia”, oltre al senso di galleggiare in uno “sterminato presente”.

Quello che salta agli occhi leggendo questo poemetto lungo, organizzato in cinque Sequenze, costruite a segmenti quasi narrativi, dotate di una sorprendente unità stilistico-tematica, con una forte vocazione teatrale, lo abbiamo accennato, data da quel tu polimorfico, e da altro – è credo la forza dell’ispirazione, il senso di una dirompente necessità espressiva: impossibile non riconoscerla quando si rivela in modo così lampante, come in questo tardo, inaspettato esordio poetico di Alberto Rollo. Ma lasciamo parlare il testo, assaporiamone un frammento, che dice, poeticamente, tutto quello che si deve dire su quest’opera, sul suo senso, sul suo contenuto, sulla sua allegorica ambientazione:

 Casto compagno, assidua spia
della mia malattia, torturatore
d’aria, siamo in alto e la vendetta
non tu sei ma questa carne presa
in consegna.
Che meriggio lungo,
immobile, feroce ci corteggia
dal cerchio di finestre. Che catena
di tetti, spigoli, acutezze
è inchiodata alla calce
umida del cielo.
Non passa, pensi, mio pretino. Passa,
invece, e d’unghie
metalliche segna, di stridori,
il mio durare, il mio guardare.

Chi parla è un uomo vecchio e malato, dunque, allettato in una specie di torre di un ospedale, dalla posizione panoramica, che il poeta chiama metaforicamente in diversi modi,  “magione terminale”, “laica cupola”, “torre lazzaretto”, “solaio desolato, preda di luci ulcerate e di silenzio”; – un lungodegente che ricorda, pensa, rimpiange il sesso (“Morbido dorso di mano ma anche lingua/illibata fammi entrare/nel sesso azzurro quando s’apre”…), le scarpinate in montagna, fra “slavine detriti e ghiaie”, i suoi affetti, la “bambina, lo scricciolo biondo”, una sorella, il padre, altre figure familiari, guarda dall’alto il paesaggio della città e del mondo che si stende ai suoi piedi, vaga fra scenari diversi, l’amata aspra montagna dolomitica dal colore rosa, il gelo invernale sereniano della città milanese con gli operai che si avviano alla fabbrica,  “Vedi le gelate, /le brine, il bianco, i torsi delle case/ irrigidite, l’imminenza/di uno spacco, /la pressa forte del cielo sulle cose…”, “E i cappotti le sciarpe/le figure che vanno, i fiotti bianchi dei fiati…”, le campagne avvolte nella nebbia; sogna a occhi aperti, viaggia nello spazio e nel tempo, si commuove, connette i fili di tutta una vita che sospettiamo lunga, operosa, e piena… un vegliardo, un “lagnoso vecchio senza morte” – un malato sofferente, monologante, che giudica e condanna anche, che vaticina sul futuro, ma come osservando tutto da una grande distanza, ormai fuori dall’agone della vita attiva e operosa; un vecchio (“più vecchio di te che pure sei vecchio”), un veggente che può soltanto osservare da lontano, in un tempo purgatoriale di attesa ed espiazione, diresti – e tuttavia il tono è spesso drammatico, nervoso, solenne, definitivo, come se sentisse approssimarsi comunque la fine, e quasi la desiderasse: “Oltre la curva estrema/dei tetti e delle nubi, che si levi/la mano di basalto e di lavagna/a cancellare la mia rupe…”.

Il vecchio si rivolge quasi sempre a qualcuno: a un interlocutore muto, a un infermiere, che lo ascolta senza interesse, mentre si aggira nel suo reparto, trafficando attorno al suo capezzale coi suoi strumenti di lavoro, garze, lattice, aghi, unguenti per le piaghe da decubito; oppure si rivolge a qualcuno che è venuto a fargli visita?, o a un altro se stesso, o a qualche entità laica. Ecco una cosa da sottolineare. Il laicismo. Una espressione che ricorre, “laico”, mentre la parola “Dio”, per dire, compare solo una volta in tutto il poemetto e per giunta con una negazione: “Né l’opera di Dio…”. Ecco la strofa esatta, cui facciamo seguire, prima di congedarci, altre due o tre strofe fra quelle che più ci hanno emozionato:

Tu non pirati o sciti attendi in questo
modesto albergo di lungodegenti:
non l’opera degli uomini disfatta,
né l’opera di Dio. Ma tieni d’occhio
l’ora e il lento male sullo stesso
orologio.
L’elmo ti sta largo, e sulla lancia
sonnecchi come me.
Ultimo senza gloria, senza pianto,
guarda gli onesti soldatini,
le belle vivandiere, i capitani
di quelle retrovie, laggiù, e i fuochi,
e i vani bivacchi delle periferie.

Vedo la notte. E giù, le serre accese.
Luci e tepori, isole nel buio:
vedo il verde da qui e intorno il nero.
Io che non dormo mai. Dillo, ministro,
quante scale e scale e scale
portano quassù.
Da qui, da questa laica cupola,
da questo cerchio e circo di suoni
rifratti, da qui vedo la notte.
Il peso delle mani
reggetelo, vetrate, e il premer forte,
e tutto questo guardare che mi spoglia.

Fa’ che dal Chrysler, dall’Hotel Europa
dalla Tour de l’Horloge, dall’ascensore
Lacerda, da cuspidi, da tetti,
da minareti, da altane e fonderie,
io vigili, io veda. Fa’, ti prego,
che in quei luoghi di pietà – ma anche
garitte, foresterie, ricetti,
officine dirute fra gli scali
merci, torrette cariate –
io sia il soldato centenario, io sia
senz’armi, senza scudo, la più sola
la più cenciosa vedetta, per quest’ultimo
turno di guardia che mi aspetta.
Che spii, enorme, le bituminose
orme degli eserciti, le ombre
e le grida delle moltitudini, i deserti
dopo le macerie in fondo, da quelle
e questa torri del mondo.

Beh, credo di avervi detto tutto di questo tardivo e notevole esordio poetico di Alberto Rollo.


Il ritratto di Alberto Rollo accanto al titolo è di Adolfo Frediani

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