Danilo Maestosi
Vivere al tempo del Covid

L’inferno e no

La pandemia ci ha reso tutti un po' più uguali. Anche costringendoci a entrane nel mondo variopinto delle serie televisive. Ma lì, nei meandri di Netflix, si scoprono strane verità e comunissime dipendenze...

Confesso. Mi sto trasformando in un peccatore seriale. Non so esattamente che peccato sia trovarmi ogni giorno sintonizzato su una serie tv, seguendola fino ad esaurimento, o a saltellare qua e la sulle schermate di Sky o di Netflix per scoprirne e sperimentarne una nuova. Forse la lussuria perché ha in qualche modo a che fare con il godimento e la difficoltà di metterci un freno, precipitandolo negli eccessi, nelle fantasie esasperate, nei giochi di ruolo della depravazione. Forse la gola, perché l’associo al frenetico consumo di patatine, biscotti, noccioline tostate, sigarette che accompagna la visione. Forse l’ira, perché si ogni tanto sprofondo in uno stato d’impazienza e di rabbia, quando un tassellino a fondo pagina mi annuncia il rinvio ad un nuovo episodio, magari ad una puntata ancora in gestazione che mi inchioda all’attesa dell’anno dopo.

Sicuramente l’accidia. Perché posso con certezza datare l’attecchire di questo vizio a due precisi eventi. In piccola parte, il pensionamento che ha cancellato i confini vincolanti di un lavoro stabile, mi ha consegnato alla panchina di un tempo senza orari, ferie e corte da concordare: ma per quello credevo di aver trovato un vaccino nella possibilità di coltivare i miei interessi (letture, viaggi, musei, incontri) e le mie due professioni, giornalismo e pittura, difese nella moderata abitudine al consumo televisivo, nell’istintiva assenza di vocazione a dilatare oltre il necessario lo smanettamento su Internet.

Ecco qui sono ricaduto in un altro peccato capitale: la superbia. O almeno l’incapacità di fare i conti con la propria debolezza.

La vera accidia l’ho sperimentata – come tutti o quasi – quando è scattato l’evento numero due decisivo: l’isolamento e i tagliafuori del primo lockdown. E ne sto trovando conferma in questo secondo, solo in apparenza più morbido, che con tre colori diversi stiamo chissà fino a quando vivendo. Il peccato sta nell’arrendersi all’attesa, nel vivere il tempo che ti spalanca come un vuoto da colmare. Ma con il covid che, libri a parte, ti toglie ogni diversivo, cinema, teatro, mostre e così via, che altra strategia puoi usare, se pensi che queste esperienze funzionino solo in presa diretta?

E infatti mi sono arreso. Convertito all’uso intensivo delle serie da mia figlia. Costretta a far la quarantena a casa mia, si illuminava di soddisfazione solo se celebravamo insieme il rito di condivisione di quei racconti frammentati, interrotti e ripresi, che erano il suo surrogato preferito alla lettura. Certo non ero del tutto digiuno. Io che ho divorato Umberto Eco e le sue teorie sul feuilletton. Allenato alle soap opera dallo spettacolo ventennale di Un posto al sole, subito dopo il tg, imperdibile per l’altra mia figlia. Ogni tanto uno spezzone di sitcom, ogni tanto qualche scheggia di Boris, che circolava persino nei salotti colti. Ogni tanto un tuffo nel siciliano inventato del commissario Montalbano. E poi l’iniziazione con Games of Thrones, una stagione dopo l’altra, da crisi di astinenza. Non solo la storia farcita di colpi di scena, rovesciamenti di parte, fantasia e crudeltà. Ma il modo con cui era girata, esterni, scenografie, attori, comparse e trucchi ed effetti speciali: vero cinema non una sciatta simulazione a telecamere fisse e budget razionati. Insomma una conversione, un perché no? da cinefilo, che mi ha dischiuso un panorama virtuale che non conoscevo. E mi ha aperto nuovi spiragli per rivisitare quello più quotidiano con cui mi misuro ancora dal vivo, virus compreso.

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Covid e serie tv ci confinano ambedue in sala d’attesa. Il virus ci isola cogliendoci impreparati. O meglio cogliendo impreparata quella maggioranza silenziosa che il regno di Internet aveva accolto e sdoganato, consentendole di affacciarcisi con opinioni senza certificato. Abolendo insomma per chi ne fa parte l’esame per la patente e l’obbligo di esibirla se qualcuno ci ferma. Le norme per frenare il contagio ci hanno costretto a girare con un’autorizzazione a vista che è ancora più rigida e limitante. Più difficile e rischioso ricorrere al falso e ignorare che lo si sta cavalcando. Si può ancora a parole contestare chi ha imposto i divieti, ma si si deve sottostare all’autorità che ce l’impone. Insomma un passo indietro, che interrompe il via libera alle pulsioni e alle opinioni selvagge, rende più alto il prezzo per manifestarle., meno appagante la soddisfazione di tramutarle in improperi.

La maggioranza silenziosa può solo aspettare che passi, sperare in una tregua temporanea, costretta magari ad allearsi tatticamente col malessere di quelli che ancora sperano che un’esperienza mai così tanto comune come questa possa aiutare a rifondare nuove forme di comunità. In realtà ormai la massa oscura dei like è diventato popolo di una sola fede: la privatizzazione della realtà, arma invincibile contro ogni congiura, sapienti, esperti, politici, medici, tutti quelli che rivendicano con la supremazia collaudata dei saperi una verità diversa dalla quella che i malmostosi del web si sono messi in testa.

Già la privatizzazione della realtà. In fondo la stessa gettonatissima miniera di nuovo personalizzato realismo che sorregge e innerva le avventure e gli eroi a puntate delle serie più in voga. Ogni serie, certo, punta ad un proprio pubblico. C’è la saga canadese Chiamatemi Anna, indirizzata a quella fascia di adolescenza che traveste la commedia della vita in una nuvola di sogni e capricci romantici, ma capace di trascinare dentro anche chi si espone senza barriere a scivolare nei trabocchetti delle nostalgie e dei rimpianti. E c’è all’estremo opposto quella targata Hollywood del Metodo Kamnsky, che mette in scena con cattiveria i turbamenti di una generazione over 65: matrimoni falliti, corteggiamenti disincantati, donne ammaccate, uomini schiavi del viagra, figli sbandati e a rimorchio delle famiglie.

E tra gli esempi di questi due estremi un campionario rappresentativo di altre età, altre situazioni esistenziali, altri problemi di identità anche sessuale, altri fallimenti, altri desideri di fuga, che copre la fascia più estesa di spettatori tra i 20 e i sessanta. Una ricerca merceologica che certo è comune anche alle produzioni di un film che aspira a far cassetta, ma che nei serial a me pare più accentuata, più attenta ai riscontri statistici di umori e reazioni che arrivano immediati attraverso la rete e decidono a volte a copione in corso mutamenti di sceneggiatura, correzioni di rotta, prolungamento delle vicende.

Perché i serial e le piattaforme che le veicolano non si accontentano di sedurci, farci innamorare, ma continuano a corteggiarci. Esemplare un vezzo rivelatore di Netflix, la major più rampante: conclusa la visione torni a sfogliare le liste di offerta e scopri che tu consumatore sei stato immediatamente schedato, analizzato e inquadrato: sotto ogni scheda di presentazione c’è un voto che fotografa i tuoi gusti e ti notifica in che percentuale potrai riprovare analoghe emozioni. Lo so. È un algoritmo che mi offre un mazzo di fiori per strapparmi un altro appuntamento. Ma l’approccio – a chi non evoca lo spettro del Grande Fratello – è timido, cortese. Alla fine spesso funziona.

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Così come funziona il gioco di specchi con cui la scrittura dei serial ti cattura. A ogni specchio puoi abbinare la curiosità che ti suscita un personaggio o la peripezia che sta affrontando. A ogni personaggio una molteplicità di altri specchi che riflettono l’evoluzione dei suoi stati d’animo e l’ingresso nel tuo immaginario in poltrona di nuovi momenti di immedesimazione. Come assistere in diretta ad una seduta di psicanalisi, a volte personale a volte collettiva, e trovarti anche tu sullo stesso divano, senza il trauma di dover decidere se sei un caso da strizzacervelli. Lo scavo psicologico è calamita di attrazione anche in un film, ma la moltiplicazione a puntate ne dilata a dismisura gli effetti. Fin troppo, ad essere sinceri. Ma quando lo capisci sei ormai catturato dal gioco, incapace di deludere gli specchi che ti guardano, e obbligato ad affrontare una crisi di astinenza. Così a rota da accettare persino il metadone di maratone trascinate oltre ogni limite di decenza e di senso per tre o più stagioni, oltre le trenta ore, come quelle a cui mi sono sottomesso per sapere se Valeria, protagonista di un omonima serie spagnola, avrebbe sublimato in una scopata, annunciata venti episodi prima, la sua delusione di ultratrentenne malmaritata, o per spiare dal buco delle serratura le bizzose avventure erotiche di Luigi XIV e dei cortigiani di Versailles.

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Ebbene sì, sono diventato così un peccatore seriale. Ma da peccatore in bilico sull’inferno ho imparato forse un’esperienza che mi mancava. La scoperta che la distanza che credevo mi separasse dal vortice di dannati della maggioranza silenziosa è in realtà un muro sottile che tutti, anche io, attraversiamo in continuazione per farci sentire. Che nell’inferno, l’unico che esiste qui in terra, bisogna calarsi. Per imparare a distinguere – come diceva Calvino – ciò che nell’inferno non è ancora inferno. E riderci su. Da povero diavolo.

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