Canio Mancuso
A proposito di "Finché la notte non ci separi"

Rovine del futuro

Sergio D'Amaro mescola passato e futuro nel segno della speranza. Nel suo nuovo romanzo il protagonista, Soave Amanuense, incontro Rutilio Namaziano tra le rovine di una Roma sospesa tra l'antichità e gli anni Sessanta

L’opera intera di Sergio D’Amaro – saggistica, poetica, narrativa – è un’indagine del passato che vivifica il presente. Rendendo possibile un’idea di futuro. Lo testimonia il romanzo, pubblicato da Besa, Finché la notte non ci separi, il cui titolo non evoca lo scenario di un mondo incamminato verso l’oblio, ma la necessità di una speranza, che non vuole essere consolatoria. Già il termine “speranza” sembra una stonatura per gli intellettuali che oggi si vergognano di usarlo. In altri tempi si sarebbe parlato di un romanzo utopico, dato che il protagonista-io narrante è un amanuense che ricopia il poema Il ritorno (De reditu suo) di Rutilio Namaziano, percorre la Via Francigena e, in uno sbalzo temporale, incontra l’autore latino, in fuga da Roma devastata dai barbari; attraversa l’Italia superando in un giro di lancette i secoli, mischiando in un sogno-visione le carte della storia, l’antica e la contemporanea, che finiscono per coincidere: la Caput Mundi in rovina e la Roma del 1960, le vie dei pellegrinaggi e l’asfalto bruciato dalla Lancia di Vittorio Gassman ne Il sorpasso; i saccheggi di Alarico e il governo Tambroni; il Boom economico e la bomba di Via Rasella; i Visigoti e i ‘’Gotici dalla croce uncinata’’ del Terzo Reich.

Il dialogo tra Soave Amanuense e Rutilio Namaziano racchiude il punto di vista dello scrittore, che si riflette in quello del personaggio chiave: le rovine di Roma, che per Rutilio sono ciò tutto che resta di un mondo al crepuscolo, per Soave sono i frammenti necessari di una costruzione futura. «Sto fuggendo e non posso né intendo intraprendere la tua Via Francesca. Scappo dai barbari, dall’apocalisse, da tutto ciò che fu nostro. Le colonne dei templi sono a pezzi, il Circo Massimo è un accampamento di zingari assetati di sangue, dove sono più i negozi e le terme?». dice Rutilio. Soave gli risponde indicando nel cristianesimo il nuovo impero universale: «Entra nelle chiese, ascolta una lezione di Agostino, scruta nella mentalità del credente e vedrai che il cambiamento è già avvenuto. L’impero è quello che si va svolgendo nelle coscienze».

Il pensiero di Rutilio è rivolto a ciò che inevitabilmente è stato; quello di Soave a ciò che necessariamente sarà. Non solo per un movimento naturale dello spirito, della sua intelligenza creatrice, ma per il disegno leggibile nel corso della storia, che è un eterno susseguirsi di morti e di rinascite, perché «la vita umana è inscritta negli orologi» e «il tempo mancato è perduto». Per Rutilio Roma è perduta per sempre, perché è perduta la sua idea di grandezza. Perciò fugge, per morire in Gallia, dov’è nato.

Il viaggio di Soave Amanuense, invece, è un itinerario della mente verso un Dio che va inteso non solo in senso confessionale, ma come il seme della speranza che non muore, come la fiducia nell’avvenire: una costruzione tutta umana, fatta di ingegno e di fiducia nelle risorse della cultura e dell’immaginazione. La Roma imperiale distrutta dai “barbari” e l’Italia in macerie del 1945 non sono soltanto terre desolate, ma il campo d’azione delle possibilità dell’uomo. In un passaggio del romanzo l’autore descrive un “Catalogus Imaginum Universalis”, un vivaio, una sorta di racconto dell’avvenire per immagini: «Le illustrazioni che vi erano contenute assecondavano il racconto di una lunga storia (…) Lo sguardo, così, poteva distendersi sui molteplici aspetti di un panorama che prometteva sorprese ad ogni singolo territorio, ricco com’era di angolazioni umane che evidenziavano gli strati profondi di una civiltà millenaria. Molti altri occhi avevano potuto godere quello spettacolo che ora si offriva in una sintesi inaudita premendo prepotentemente sui tessuti sensibili e sulle onde ritmiche del cuore».

Le figure che popolano il romanzo lampeggiano nelle pagine dietro nomi di fantasia: Umberto Zanotti Bianco (formidabile esempio di eclettismo: filantropo, politico archeologo, umanista in senso rinascimentale) diventa Umberto Dei Bianchi; Adriano Olivetti è Augusto Degli Ulivi: la sua Domus Mechanica, punto di approdo del viaggio di Soave Amanuense, è la rappresentazione fantastica della Olivetti, un incrocio di fabbrica di parole e laboratorio delle idee, innestato in un medioevo contemporaneo. Quello della “contemporaneità” è il concetto cardine del libro. Tutto ciò che accade nel passato, accade qui e ora perché è presente “in interiore homine”. I rimandi culturali sono noti – Sant’Agostino, certo, ma non dimenticherei René Clair –, ma è interessante il modo in cui l’autore miscela nella forma narrativa l’argomentazione e la riflessione, tipiche del saggio filosofico e sociologico, quasi annullando il dialogo, che nel romanzo moderno ha un ruolo fondamentale.

Scovare le identità reali dietro i nomi fittizi dei personaggi, è un gioco a cui il lettore vanitoso non può sottrarsi: Cassio Auromagno è Cassiodoro, modello ideale di pensatore politico, teorico della convivenza rigenerante delle culture. (Nell’ultimo capitolo del romanzo, D’Amaro cita alcuni passi del De anima, mettendoli in bocca all’autore diventato personaggio; come all’inizio intercala i versi di Rutilio Namaziano nel resoconto del protagonista). Il maratoneta etiope Abebe Bikila è facilmente riconoscibile in Ben Achebe, Rosa Dolphin sembra evocare la grande velocista statunitense Wilma Rudolph.

Attraverso gli incontri di Soave Amanuense, il lettore si vede scorrere davanti agli occhi una carrellata di nomi; qualcuno resta impigliato nei suoi ricordi. Ciò che conta, però, è la memoria dell’autore. D’Amaro apparentemente scherza con la storia. In realtà la visita per ribaltarne il senso superficiale. Il tema della memoria come innesto della speranza attraversa la scrittura di D’Amaro e la caratterizza sin dagli esordi. Le sue raccolte poetiche, da Beatles a Twentieth Century Vox, hanno raccontato l’Italia che cambia con sterzate ironiche e brevi strappi di dolore; come i suoi romanzi e i suoi racconti (penso a La casa degli oggetti parlanti) e gli scritti sull’emigrazione e su Carlo Levi. Il punto di vista è quello della provincia affacciata sull’orizzonte. Che sia il mare o l’avvenire. Il Sud guardato da Nord e il Nord guardato da Sud. Torino e Rodi Garganico, luoghi della biografia personale e familiare dello scrittore. Si può parlare di nostalgia, ma in senso paradossale: la “nostalgia del futuro” di chi si guarda indietro e non resta prigioniero del sogno. Nella sua operazione di rilancio della speranza, l’autore manifesta la sua visione ottimistica della storia, pur sapendo che “La storia complica la nostra conoscenza del passato” (Tzvetan Todorov). Secondo D’Amaro, tutto ciò che sembra volerci annientare ha in sé il germe della rinascita.

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