Danilo Maestosi
Lungo le Mura Aureliane, a Roma

L’arte in strada

Gianni Politi ha riunito ("Insieme") un gruppo di artisti e ha chiesto loro di esporre delle opere in strada, al quartiere San Lorenzo, come per far uscire l'arte dal lockdown. Ma l'idea era migliore del risultato effettivo

INSIEME… Insieme… insieme…, urla il maximanifesto che tappezza un po’ ovunque i muri di San Lorenzo. Ripetendo come un mantra la stessa parola, che dà titolo alla mostra allestita fino al 12 novembre in via di Porta Labicana sull’ansa delle Mure Aureliane che marca il confine del quartiere. E ne sottolinea il messaggio, con una ricerca di visibilità, un po’ sbilanciata rispetto al colpo d’occhio della esposizione che ci invita a visitare.

Già perché l’impatto delle diciannove opere che le dànno corpo appoggiate o sporgenti sulla imponente fascia di antichi mattoni sbrecciati allo sbocco di via dei Rutoli sembra abbastanza sfuggente. Tutti i lavori piazzati troppo in alto, molti mimetizzati tra i colori, nelle brecce e nei rilievi dei ruderi, difficile notarli se si percorre in macchina la strada, un corridoio a senso unico che va dallo scalo San Lorenzo a piazzale Tiburtino, esterno all’intenso e disattento via vai di frequentatori della movida. Solo di notte in grado di calamitare lo sguardo e imporre ai passanti frettolosi una sosta di suggestione, per via dei riflettori che ne ritagliano nel buio le sagome e l’anomalia.

Una scelta di regia su cui dovremo tornare per tracciare un bilancio dell’iniziativa. Ma che dà ancora più risalto a quella parola d’ordine che la promuove. Insieme. Un invito controcorrente con la fobia all’incontrarsi che la seconda ondata d’epidemia ha rimesso in circolo. E una scommessa incoraggiante e troppo a lungo caduta in prescrizione nel mondo afasico e autoreferenziale degli artisti, che hanno smarrito la capacità e la voglia di collaborare, fare gruppo in modo non occasionale e virtuale.

Mostra insieme

Insomma davvero una bella idea quella venuta in mente a Gianni Ippoliti, un pittore in carriera di 35 anni, nei giorni del lockdown, quando è rimasto asserragliato nel suo studio al numero 25 di via dei Rutoli, e ha cominciato a riflettere su come lui ed altri artisti che frequentava potessero collaborare a rompere l’isolamento, far sentire in qualche modo la loro voce. Uscire all’aperto. Ripartire. Da dove?

E qui una seconda idea ancora più stimolante e ricca di prospettive. Suggerita da un’esperienza che ha impresso una svolta alla carriera di Gianni Ippoliti: la partecipazione ad una mostra di autori contemporanei tra i ruderi dello stadio di Domiziano sul Palatino curata dalla collezionista archeologa Raffaella Frascarelli.

Già, perché non scegliere come galleria en plein air proprio quello spicchio di mura Aureliane lì di fronte, studiare e misurarsi con la sua storia, come lui ha cominciato a fare scoprendo che alle spalle di quella secolare barriera si trovava e c’è ancora un’antica cisterna, che quelle mensole e quei fori incastonati tra i mattoni sono le tracce di un edificio più tardo crollato che ci si era addossato? Un monumento non isolato dalla storia di Roma e sovraccarico di valori simbolici: la gloria e la caduta della capitale imperiale, un diaframma tra centro e periferia. E un patrimonio da difendere, restaurare, che la soprintendenza comunale ha inserito tra le priorità: non a caso il progetto è stato rapidamente approvato e sostenuto dal Campidoglio.

Più che positiva la risposta degli artisti. Diciannove, tutti quelli, tranne uno di cui non fa il nome, che Ippoliti è riuscito a contattare. Qualche firma di primafila, come Nunzio, uno dei fondatori della scuola di San Lorenzo, nel cui ambito Gianni Ippoliti si è fatto le ossa, frequentando da allievo e assistente lo studio di Pizzi Cannella. Prezioso l’appoggio e la sponsorizzazione di una grande società di infrastrutture che si è accollata i costi.

Di giorno verso il mare in una buca, Conchiglie, pigmenti fluorescenti, dimensioni variabili

Discutibili e non indimenticabili, invece, i risultati dell’operazione, che sconta un vistoso difetto di partenza: la decisione di sistemare tutti i lavori ad eccessiva distanza da terra, limitandone l’impatto visivo. «Abbiamo tutti accettato – confessa Gianni Ippoliti – il rischio che le opere fossero esposte senza sorveglianza all’aperto, dunque alla pioggia, al vento e allo smog. Ma dovevamo garantirci almeno di impedire che qualcuno potesse facilmente portarle via, rubarle». Comprensibile precauzione, peccato però che sconfessi le intenzioni di partenza, quell’invito a stare insieme che dovrebbe coinvolgere anche gli spettatori. E assecondi, invece di smentirlo quel distacco forzato che il covid ci impone. Davvero difficile, anche consultando la cartina con titoli e collocazione delle opere che gli organizzatori distribuiscono, essere coinvolti da opere così lontane allo sguardo da confondersi con i colori, le rughe, le fessure di quel muro antico. E risultare davvero poco leggibili. Come accade ad esempio ad uno degli interventi concettualmente più avvincenti: quello di Alessandro Piangiamore, l’unico che si sia lanciato ad infrangere l’ostacolo reale e virtuale di quella barriera di mattoni, aprendo uno squarcio d’immaginazione verso l’adilà, con quelle conchiglie, ingolfate in una cavità a suggerire la voce lontana del mare, che è impossibile distinguere, individuare.

Un distanziamento che finisce per dare risalto soprattutto alle macchie di grandi pannelli pittorici, come quelli popolati di colori vivaci, armonie e dissonanze di segni, realizzati da Alessandro Cicoria, Delfina Scarpa, Pietro Ruffo, José Angelino. O alla foto di Ra di Martino, che inquadra i bagliori di una statua di marmo su fondo nero. Peccato sia un frame di un video già esposto. Perché più di uno degli autori coinvolti nell’operazione invece di lavorare sul tema proposto ha preferito riusare qualche vecchio lavoro, come ha fatto Giuseppe Gallo, riutilizzando e appendendo al muro una bizzarra sedia dalle gambe allungate e contorte come tentacoli di un polpo, che si era già vista in un museo romano. Un peccato d’avarizia e autoreferenzialità che la dice lunga sulla difficoltà di molti artisti di oggi di misurarsi, come molti maestri del passato, con i vincoli di una committenza, senza restarne schiavi.

E si lascia sfuggire, salvo poche eccezioni, in questa minimalista ripiego d’anarchia, l’occasione di sviluppare una riflessione corale sul monumento con cui i diciannove autori si sono confrontati.

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