Lo scaffale degli editori
Nel cuore grande della disperanza
Mentre il successo del romanzo di Valérie Perrin premia le Edizioni e/o per aver puntato ancora su un autore sconosciuto, Fandango sceglie scrittori controcorrente. Come Mimmo Rafele e Giulio Cavalli che pone a se stesso e ai suoi lettori una domanda: “quando avete perso la speranza”?
Non va poi tanto male per l’editoria. Le vendite sono calate, è vero, ma soltanto del 7 per cento. Eppure nella scorsa primavera, con le librerie chiuse per lockdown, il settore paventava il disastro. Invece no, certifica adesso l’Aie, Associazione Italiana Editori: tra luglio e settembre il settore romanzi-varia è al -7 per cento rispetto al 2019. A metà aprile scorso era invece sotto del venti per cento. Ha giovato la riapertura delle librerie, dove i librai, a fronte di un minor numero di novità, sono stati un punto di riferimento, specie nelle città piccole e medie, con i consigli per gli acquisti ai lettori.
In questo quadro consolante di recupero dunque, continua a far da traino la narrativa. E qui, accanto ai best seller scontati (vedi Il colibrìdi Veronesi, Premio Strega 2020) c’è qualche affermazione inaspettata. Che premia il coraggio degli editori di puntare su un autore sconosciuto o su un’opera prima. È successo alle Edizioni e/o (non nuove del resto agli scoop) con il romanzo di una anonima autrice francese: Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin (480 pagine, 18 euro) è esploso nel corso dell’estate (all’inizio di settembre aveva venduto 180 mila copie), ma ancora si mantiene stabile in quarta posizione, nonostante le pubblicazioni autunnali. Un libro uscito in sordina, in Francia, nel febbraio 2018, senza attrarre molti lettori. Nel nostro Paese è spuntato sugli scaffali a metà del 2019, anche in questo caso incapace di fare colpo. E invece, verso la fine della quarantena e durante l’estate, è stato boom di vendite. Frutto, badate bene, di un passaparola – e dei consigli dei librai, che Dio li conservi – come avvenne a Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia.
Di che cosa parla Cambiare l’acqua ai fiori? Della memoria, della solitudine, dei dolori e delle speranze, del’armonia esistenziale, nonostante tutto. Della morte che si intreccia alla vita. E infatti la protagonista è la guardiana di un cimitero in una piccola città francese. Una donna schiva, Violette Tuissant (il cognome significa Tutti i santi, e chissà che l’imminente ricorrenza religiosa non faccia di nuovo lievitare le vendite). Una insomma apparentemente senza qualità. Che invece si “svela” quando incappa in uno strano caso “professionale”: uno sconosciuto le dice che la madre ha espresso la volontà che le proprie ceneri vengano sepolte accanto alla tomba di un uomo che non è il marito. Da questo spunto si sviluppa il plot che è una ricerca attorno a quel mistero, realizzata con sapienti flashback, alternanza tra diari, lettere, ricordi, il tutto narrato in prima persona. Ingredienti capaci di calamitare il lettore, anche grazie alla traduzione di Alberto Bracci Testasecca.
Un libro molto francese, per quel suo raccontare una storia sommessa, introspettiva, di provincia. Un libro sentimentale, facile, potremmo dire, che ha qualche assonanza con un altro “colpaccio” di e/o, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery dal quale è stato tratto un buon film (lì la protagonista era una portiera di mezz’età rintanata in guardiola e insaziabile lettrice di romanzi, che trova il suo Pigmalione in un raffinato e sensibile condomino giapponese). La Perrin – che ha 53 anni, è moglie del regista Claude Lelouche e oltre che sceneggiatrice è fotografa di scena – ha appena fatto la sua passerella italiana al festival letterario “Insieme”, che si è tenuto a Roma. Cambiare l’acqua ai fiori è il secondo libro che ha firmato e il successo ottenuto ha rilanciato anche il romanzo d’esordio, Il quaderno dell’amore perduto (una storia d’amore narrata da una anziana a una dipendente della casa di riposo in cui vive, e qui l’eco è di Va’ dove ti porta il cuore, exploit nel 1994 di un’altra “principiante”, Susanna Tamaro), che in italiano era uscito senza alcun clamore per Nord, della galassia del Gruppo Mauri Spagnol. A settembre però Nord lo ha riproposto con una copertina nuova e lo ha visto raggiungere la terza posizione nella classifica della narrativa straniera. Hanno la parvenza di storie rosa, entrambi i romanzi. E però Cambiare l’acqua ai fiori vira con colpi di scena verso il giallo, assomma storie secondarie e tuttavia non sbroda in minestrone di sottoplot perché tiene unito il racconto la fiigura ben delineata della protagonista, giovandosi dell’eco di altri personaggi letterari.
Anche l’editore Fandango osa molto, con autori controcorrente, urticanti, duri, essi stessi talvolta personaggi controversi. Ha avuto un grande successo l’opera prima di Jonathan Bazzi, Febbre, romanzo autobiografico di un sieropositivo e omosessuale che è entrato nella Cinquina dello Strega. In autunno la casa editrice romana ha stampato due titoli di nuovo singolari. Disperanza di Giulio Cavalli (115 pagine, 12 euro) è insieme autobiografia e crestomazia di testimonianze dei suoi lettori. Ai quali l’autore – di libri di inchiesta, testi teatrali, e di romanzi apprezzati come Carnaio, che nel 2019 ha vinto la Selezione Campiello – ha chiesto attraverso il suo social: “quando avete perso la speranza”? E infatti il piccolo volume è una sorta di manifesto dei fragili, dei perdenti. Così si sente Cavalli, tiranneggiato dalla depressione che lo fa morire ogni giorno («Mi accade preferibilmente di notte, comunque nel sonno, anche di pomeriggio se mi addormento davanti a un film stagnante o sotto un brutto libro che mi cade sulla faccia…»). Vi si aggiunge l’isolamento perché vive sotto scorta per i suoi scritti contro le mafie.
Ma la disperanza è un sentimento che invade tanti altri: giovani che non si aspettano niente, che credono nell’occasione e non nell’opportunità, adulti che hanno reso le armi ma non possono permettersi di abbandonare la lotta, cittadini sempre in transito in una società che chiede di essere ottimisti, positivi, performanti. Impera la retorica del superomismo e invece sempre più in tanti traballano nell’insicurezza. Con qualche segnale consolante, però: «Tra le tante lettere arrivate, mi hanno sorpreso quelle di chi si dice disperante per la situazione politica del proprio paese o addirittura del mondo. In un periodo di federalismo della responsabilità, dove stanno cercando di convincerci a occupare spazi sempre più ristretti fottendosene del resto (…) che esistano persone che ancora sentono la comunità come larga mi riempie il cuore».
Il primo libro firmato da solo dello sceneggiatore e regista Mimmo Rafele (a quattro mani con Giancarlo De Cataldo era La forma della paura, 2009) si intitola Quello che è Stato (315 pagine, 18 euro). Un romanzo di formazione, ma alla vendetta. Il motore del progetto di vita di Lucio, che perde i genitori nella strage di Portella della Ginestra, mentre, quindicenne, si trova con loro a celebrare la festa del lavoro. Orfano, se ne va a Napoli, aiutato da un ambiguo avvocato, Frangipane. Entra in piccoli giri malavitosi, poi in quello di Lucky Luciano e della destra eversiva del dopoguerra. Ma si avvicina anche ai comunisti di Napolitano e Amendola. Infine diventa pedina di un doppiogioco pericoloso tra neri e rossi, una spia nell’Italia postbellica, che arranca e si arrangia, barcamenandosi nel mare scuro della Guerra Fredda. Lucio, del resto, ha perso l’innocenza quel 1 maggio del 1947, quando il bandito Salvatore Giuliano siglò un patto con mafia, possidenti terrieri, destra, americani e probabilmente poteri deviati dello Stato. È in quella Piana degli Albanesi che per lui comincia il rancore contro l’inganno della Storia