Alla Galleria Nazionale di Roma
Arte in movimento
Roma rende omaggio a Wang Yancheng, artista cinese da tempo trapiantato in Europa. Nelle sue opere, i frammenti del reale si mescolano creando un effetto di costante movimento. Come se si volessero fermare vita e emozioni sulla tela
Quelli che pensano o si sono lasciati convincere che la pittura sia un fossile, un linguaggio in via d’estinzione, un codice per sordomuti sempre più estraneo al gusto e agli orizzonti del mondo di oggi, hanno un’occasione in più per ricredersi visitando la mostra, in cartellone fino al 9 gennaio, alla Galleria nazionale di Valle Giulia, che porta in scena gli ultimi lavori di Wang Yancheng, 60 anni, artista cinese di solida reputazione internazionale.
Micro e Macro: già il titolo con cui, accogliendo i consigli dei due curatori Giuseppina Di Monte e Gabriele Simongini, Yancheng ha voluto battezzare la mostra, è un esplicito manifesto di adesione ai canoni della contemporaneità. La mappa moltiplicata in una trentina di opere di una sfida emotiva e concettuale che prova ad unire come frammenti di una stessa visione gli opposti universi dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, le apparenze dell’ordine e del disordine, le dimensioni del dentro e del fuori, i paesaggi della realtà e del sogno, la ricerca dell’assoluto e l’accettazione della relatività di ogni approccio, il tempo rappreso della sosta e quello in continua espansione del movimento.
Già, il movimento. Al primo colpo d’occhio e a distanza è la sensazione che con più forza ci trasmette la pittura di questo artista orientale trapiantato in Occidente, costringendoci a misurarci con una molteplicità di piani e un intreccio di segni che guidano lo spazio in direzioni opposte. Che cavalcano il linguaggio dell’astrazione con una libertà che si trascina appresso echi evidenti dell’action painting, ma pur rinunciando alla figurazione non rinnega la forma, l’ancoraggio di un impianto espressivo. In ogni quadro, se non ci si lascia distrarre dal groviglio di colori, sfumature, spessori, puoi trovare il punto dove quella visione si è generata, come se l’autore ti avesse dischiuso davanti una porta e da lì ti invitasse a iniziare la tua esplorazione, o a tornarci per non annegare spaesato nell’indistinto.
Una capacità di sdoppiarsi e obbligarci a sdoppiare i nostri giudizi che già ci aveva colpito un paio d’anni fa in una mostra, applaudita ma poco frequentata, con cui l’Accademia di Belle Arti lo aveva presentato al pubblico romano, in una sala di via Ripetta. Ma lì questo andirivieni di sguardi era inevitabilmente soffocato ,spento da uno spazio troppo angusto: pochi lavori, tutti o quasi di medie dimensioni, che finivi per osservare come se fiancheggiassi le quinte di un teatro perdendo di vista lo spettacolo del palcoscenico.
Qui, invece, nelle ampie stanze che la Galleria nazionale gli ha messo a disposizione, la pittura di Wang Yancheng ha trovato la sua ribalta ideale. E la possibilità di esporre una serie di tele di ampia scala, composte da pannelli affiancati, che viste a distanza contro le pareti bianche ci restituiscono la suggestiva sensazione di altrettante finestre spalancate sulla vista di un paesaggio che come in un gioco di specchi racchiude l’immensità di un universo dilatato e i riflessi delle sue vibrazioni al microscopio.
«La mia pittura – spiega Wang in un’intervista riportata nel saggio introduttivo di Giuseppina Di Monte – è un groviglio di sole, di pioggia e di storia umana». Una bussola preziosa per rileggere i suoi paesaggi, che ci autorizza a viverli come rappresentazione di fenomeni naturali che ci stanno accadendo davanti. Liberi di associarli al pensiero di una tempesta, all’accavallarsi di onde di un mare o di un lago, all’irruzione di uno sprazzo di luce tra nuvole che ancora grondano lacrime di pioggia. O di vederli come il manifestarsi di un mondo in gestazione, di un caos che genera illusioni e poi forme che si dissolvono fino a svaporare come fantasmi. Stadi di uno spettacolo per strati sovrapposti, che la pittura insegue in vari modi dando fondo ad un variegato repertorio di trucchi e impulsi visivi. Può essere la matericità degli impasti cromatici, il colore mescolato alle sabbie o alla diafana sostanza dei gessi. Può essere l’effetto delle colature, che calano giù da dense stesure diluite. Possono essere le pennellate incise a forza, altre invece che sfumano in campiture più classiche sciogliendosi in vibrazioni di luce. Pennellate che scavano profondità di volumi, sembrano a volte inseguire il rimando di corpi, oppure si disperdono a ricamo. E poi il piacere e l’intensità dei colori che si accende all’improvviso: striature inattese di giallo, fiammate di rossi densi e carnosi, verdi pastello che sembrano sbucare dal nulla.
«Un cortocircuito appassionante e poi un’osmosi profonda tra energia e desiderio, tra le forze titanicamente sublimi della natura e quelle dinamiche e fluttuanti dell’interiorità che si fondono originando una sorta di membrana organica dotata di un proprio respiro creato dalla stesura sensibile del colore sintonizzato sui movimenti della vita»: è l’illuminante descrizione con cui il curatore Gabriele Simongini ci trasmette le sue sensazioni. Sensazioni che possono essere ripercorse, trasformate in altre sensazioni, se ci si avvicina ad ogni quadro, trovando in quelle finestre che l’autore ci spalanca davanti, altre finestre, altri punti di fuga, altri paesaggi dischiusi per bucare la superficie, ascoltare quella tela che ansima, si contrae, energia in sintonia e dissenso con la musica e i silenzi dell’anima e del cosmo. Poi c’è la storia umana, come ammette lo stesso Wang Yancheng.
Perché appunto, uno dei miracoli della pittura, quando non precipita nella maniera, è di impadronirsi e tradurre in impulso spontaneo, in chimica inconsapevole del corpo la memoria della infinita trama di esperienze con cui l’umanità ha costruito il suo immaginario inseguendo il mondo che cambia. Come ogni pittore, anche Wang Yancheng è a suo modo un ladro d’arte. Paga il suo debito alla pittura orientale, a quella giapponese in particolare. Ma, traslocato a Parigi e in Europa, ha arricchito la sua tavolozza e il suo modo di governare lo spazio, di altre risonanze, da Pollock a Matisse, da Richter a Odilon Redon, da Dubuffet a Turner. Ascoltare altre voci non gli ha impedito di trovare la sua voce e declinarla al futuro.