Sulla scuola dell’immobilità
Via la mascherina dalle parole
In questa fase X dell’anno Zero del Covid 19, mentre la ripresa scolastica “in presenza” ci dà l’illusione di un ritorno alla normalità, solo se la scuola si riappropria dei valori che contano allora può tornare a essere il luogo dell’incontro, il vero motore della ripartenza
Ci siamo di nuovo dentro. In effetti non ne siamo mai usciti, malgrado la fideistica negazione dei discotecari, il sermone blaterante di chi la mascherina l’ha parcheggiata nelle tasche già da qualche mese. Siamo di nuovo a fare i conti, con l’obiettivo di dimostrare, morti alla mano, reparti ospedalieri covid ancora con posti liberi, che in fondo qualcosa è cambiato, che non è poi così male questo mondo dove ci si ammala anche di Covid 19, che sarà mai, tanto poi si sopravvive. O si muore, quelli a cui tocca, come si muore di tante altre cose del resto, è la vita che vuole così. Si sciorinano statistiche con la solennità di matematici, si confrontano tabelle, si snocciolano indici di contagio Rt come grani del rosario. Tutto per dire che in questa fase non siamo messi così male.
Già, ma in che fase siamo? È la fase che non sappiamo in che fase siamo. Si aspetta di capire, con apprensione si trattiene il fiato, che di questi tempi non è mai una cattiva idea. Siamo insomma nella Fase X, quella dell’attesa.
Dovremmo però renderci conto che qualcosa è già accaduto e continua a manifestarsi, con la tenacia dello stillicidio che alla lunga perfora la roccia. Giorno dopo giorno, contagio dopo contagio, qualcosa lentamente si modifica nel nostro, già strampalato per carità, rapporto con il mondo. Ad esempio, non riusciamo più ad avvicinarci agli altri con tranquillità, a non vedere un pericolo in chi ci sta di fronte.
A pensarci però Covid 19 anche in questo caso non ha fatto altro che esasperare quanto già prima era sotto gli occhi di tutti. Gli altri in fondo ci danno fastidio. Più sono diversi da noi, più, pur essendo diversi, si avvicinano, più non appartengono all’eletta schiera dei pochi a cui ci sentiamo imparentati, più li sentiamo appestati. Qualcosa sicuramente avranno per arrecarci danno, da qualche parte un virus annidato in un poro della pelle, che non aspetta altro che contagiarci, un batterio sudaticcio pericoloso come un lanciafiamme, un’idea non corrisposta malvagia come una lacrima infetta, una parola di troppo.
Gli studenti sono tornati a scuola. Una volta arrivati nell’aula e irrigiditi nella consueta scomoda modalità, stavolta nel banco monoposto, a distanza di sicurezza dall’altrui rima buccale, possono tirare giù la mascherina, farsi ammirare nella bellezza del sorriso quindicenne o chiudersi a labbra serrate nella disciplinata angoscia da studente pre o adolescente.
Sono tornati a mordicchiare merende a rima buccale elegantemente aperta, a chiedere di andare in bagno, a mostrare o a fingere interesse per l’astrusità degli argomenti scolastici, a suggerire, a tentare di comprendere un suggerimento. L’insegnamento di nuovo in presenza, ora si dice così, anima la vita della nazione, alimenta l’economia, fa vivere i trasporti locali, i bar, le cartolerie. La scuola è ripartita e anche l’Italia può dire finalmente che ci sta provando. Gli studenti sono tornati, dovremmo esserne contenti. Siamo contenti, ma c’è qualcosa che non torna, che non va nel verso giusto.
A vederli così confinati, aggrappate ostriche al loro piccolo scoglio di salvezza, un po’ intimoriti di fronte alla direzione che sta prendendo il mondo, che non si sa che direzione sia e nemmeno lo sanno i professori, gli studenti di quello che doveva essere il primo anno dell’era post Covid e invece è l’anno Zero, fanno un po’ tristezza. I ragazzotti ancora non palestrati e piuttosto imberbi, perduti nella nebbia di un’identità che tarda a manifestarsi, le ragazze senza tanto trucco e senza moine, quelle della mattina alle otto, tutte dubbi e determinazione, hanno assunto un’aria seria e infelice, impalati sulla piccola sedia che non è sembrata mai tanto piccola come ora, e loro mai tanto intorpiditi come ora.
Di cosa dovremmo essere felici, del loro intirizzimento da stalattiti, che ci tocca anche di apprezzare, guai se così non fosse? Dei timidi tentativi di trasgredire in una sbandata verso il banco avversario, subito rientrata nella posizione statuaria? Che c’è di bello in questa scuola dell’immobilità, del quotidiano bollettino dei tamponi negativi, degli ammalati solo influenzati o raffreddati, della conta delle quarantene e degli isolamenti fiduciari?
C’è da essere felici che la scuola, anche in questo avvio di fase X dell’anno Zero, rappresenti uno dei posti più sicuri e controllati della nazione? Che i ragazzi, almeno tra queste mura, sanno di doversi mantenere a debito intervallo dall’Altro, chiunque esso sia, anche se, tra queste mura, chi sia l’altro non fa differenza, non dovrebbe mai farla? Siamo felici, ci sforziamo di esserlo.
Due ragazzi stanno per lasciarsi prima di imboccare uno tra i tanti varchi di accesso all’edificio scolastico. Si abbassano la mascherina e si baciano. Mi guardano, mi salutano, capiscono che li ho visti, si scusano. Li riconosco, ricambio il saluto agitando il braccio, con l’invisibile sorriso sotto la mascherina. «Stiamo insieme da un anno» dice lui, e io non so bene se si tratti di un’informazione che cela intima soddisfazione o di una autodichiarazione da congiunto con scopo di giustificazione. Beati loro, comunque penso, mentre rialzano la mascherina e si guardano ancora per qualche secondo negli occhi appassionati.
La scuola non può essere questo. Non può evitare gli abbracci, abbracciando la logica dello stoccafisso. Però, badate, non è colpa di questo o di quello se le cose stanno in questo modo. Non è colpa del governo se piovono coronavirus e decreti, in quest’autunno piovoso e contagioso. Non ci sono complotti, non esistono dittature di governanti con la mania della sanità pubblica. Ci sono le regole e vanno rispettate. Se vogliamo che gli studenti continuino a stare a scuola, bisogna che rinunciamo tutti a qualcosa. Se vogliamo però che la scuola riprenda a essere il luogo dell’incontro, ritrovo di persone e conoscenze, il luogo degli abbracci reali e metaforici, il territorio dove anche l’Altro, ogni altro, trova gli strumenti attraverso cui dialogare e sentirsi incluso, dobbiamo fare qualcosa di più, forse di diverso.
Dobbiamo sostituire la vicinanza, la stretta di mano, l’abbraccio, il contatto fisico con quello che abbiamo a disposizione e che nessuna mascherina può oscurare. Bisogna riappropriarsi della forza che è all’interno delle parole, quell’energia calda e potente che c’è sempre se chi parla o chi scrive usa parole vere, sane e in questo caso sì contagiose. Dobbiamo volere che le parole sappiano di nuovo essere il luogo dell’incontro e non della separazione, della crescita comune e non del giudizio. Insomma dobbiamo cercare di non avere paura della potenza che possono avere, anche del coraggio, della bontà, della cattiveria. Levare loro la mascherina, ricostruire attraverso di esse la presenza fisica degli incontri, permettere alle parole di abbracciare, di abbracciarci. Se la scuola si riappropria delle parole che contano, non per contare morti e contagiati, allora si può dire che essa è davvero il motore della ripartenza.