Flavio Fusi
A proposito del “grande scrittore americano”

La sedia di Roth

Qual è il peso di un grande romanziere nel definire o indirizzare la società? Ce ne rendiamo conto oggi, seguendo la campagna elettorale americana senza più Philip Roth lì pronto a raccontarla e a dare senso al vuoto

Guardi le immagini della convention democratica, osservi quella platea virtuale resa fantasmatica dalla tremebonda politica ai tempi della pandemia, ritrovi uno ad uno i personaggi che fecero la storia recente del partito e del Paese, riconosci a malapena i pallidi protagonisti di un modesto futuro, e ti accorgi di una sedia vuota proprio al centro della scena.

La sedia vuota a cui nessuno guarda, ma che tutti avvertono come perdita e assenza, è quella del “Grande scrittore americano”. Perché da due anni l’America – questa America – è orfana di Philip Roth, l’ebreo senza chiesa, il democratico rooseveltiano (come amava definirsi) che nei confronti del bancarottiere al comando aveva coniato definizioni sferzanti e definitive.  

Negli ultimi anni della sua vita lo scrittore ottantenne aveva più volte denunciato la deriva americana interpretata da questo personaggio deplorevole, ignorante di politica, scienza, storia, filosofia, arte. Un uomo «che possiede un vocabolario di settantasette parole, una lingua preistorica che è più appropriato chiamare cretinese (jerkish) piuttosto che inglese…».

Che duello impari! Roth affidava i suoi giudizi a rare e sulfuree conversazioni con il New York Times («Un gigantesco truffatore, malvagia somma delle sue mancanze»), mentre Donald Trump modellava ogni giorno la politica americana sulla forma povera e sgraziata dei suoi innumerevoli cinguettii quotidiani.

America orfana, e non solo di Philip Roth. Nella storia contemporanea, sempre – o quasi sempre – il grande scrittore americano aveva occupato quella sedia di riguardo nel consesso del Partito democratico. Tra i due conflitti e poi agli albori della guerra fredda con la rabbia popolare di Steinbeck e il generoso machismo di Ernest Hemingway, negli anni amari del Vietnam con la scrittura militante di Norman Mailer e il rovello intellettuale di Henry Miller, fino alle cronache apparentemente impolitiche dell’ebreo errante Saul Bellow, sempre schierato dalla parte dell’uomo e dei suoi rovelli contro il Moloch del moderno universo unidimensionale. Lo stesso Tom Wolfe, personaggio e scrittore lontano anni luce dall’impegno politico, non aveva esitato ad affondare la sua scrittura affilata nella ferita americana: la guerra mai conclusa tra gli immacolati quartieri dei bianchi e l’eterna suburra nera. 

Oggi, anno di grazia 2020, nel nostro smarrimento è inutile chiedere lumi al fantasma del grande scrittore. E tuttavia – come la coda di una cometa che si spegne filando nelle profondità del cosmo – in alcune sue antiche storie possiamo cogliere segnali luminosi che parlano anche al nostro presente.

Il brutto sogno di cui siamo testimoni Philip Roth lo aveva intravisto e descritto senza pietà nel suo Complotto contro l’America. Tra il testo di ieri e la cronaca di oggi lo scrittore negava assonanze e somiglianze, ma alcuni segni – come lo slogan “America First” – legavano la fantasia estrema di un nazista alla guida dell’America alla realtà di un presidente violento e imbroglione come Donald Trump.

E ancora, nel suo Genesi, l’ultimo grande scrittore americano aveva descritto gli effetti spaventevoli della pandemia: la poliomielite ieri, il coronavirus oggi. E questa vecchia pagina sembra scritta per tutti noi: «fu qualche giorno dopo che due dei ragazzi non si presentarono al campo giochi della Chancellor per giocare a softball. La mattina si erano svegliati con la febbre alta e il torcicollo. Nel giro di quarant’otto ore ci furono altri undici casi e nel quartiere si sparse la voce che la malattia era stata portata a Weequahic dagli italiani».

Per queste assonanze, la nostra nostalgia è più dolorosa. Anche nei decenni più bui il grande scrittore americano – chiunque fosse – non aveva mai fatto mancare la sua voce a fianco dei giusti. Oggi non è più così: il Paese che fu di Roosevelt e Kennedy, di Clinton e di Obama, si affaccia smarrito sul suo incerto futuro, solo come «un astronauta davanti alla notte spaziale». E nulla come questa assenza – questa sedia tristemente vuota – descrive meglio il deserto delle idee e la paura del futuro nell’America di oggi.

Facebooktwitterlinkedin