Danilo Maestosi
Vista al Macro di Roma

Arte usa e getta

Luca Lo Pinto apre la sua stagione al museo capitolino con una mostra che ripercorre in modo orizzontale (rimanendo sempre sulla superficie delle cose) l'arte romana dell'inizio degli anni Settanta. Come se il tempo (e le due problematiche) si fosse fermato allora

Ad accogliere chi entra e chi esce, una risata. O meglio la registrazione di una risata. Metallica, fastidiosa, stridente. Due volte finta. Come può essere il fantasma di una citazione ripescata nelle nebbie del tempo. Cinquanta anni fa per l’esattezza. Una risata storica, quella con cui nel 1970 Gino De Dominicis si fece beffa dei visitatori che invitati ad una sua mostra nella galleria l’Attico trovarono la sala vuota. Luca Lo Pinto ne ha fatto il prologo e il biglietto da visita della mostra con cui inaugura il nuovo ciclo della sua direzione al Macro.

Anche la mostra è a sua volta una messinscena di presentazione del museo che sarà, il quale, a sua volta, ruba il titolo ad un’altra esperienza di mezzo secolo fa: quel «museo dell’immaginazione preventiva» fondato da un manipolo di autori spericolati nella Roma inizi anni ’70 e modellato coma una sorta di ufficio di collocamento per cercare forme alternative di circolazione e promozione dell’arte fuori copione. Strizzatine d’occhio da curatore in carriera – Lo Pinto sicuramente lo è – con cui si cerca di catturare la complicità dei colleghi di percorso, più che il consenso di un pubblico da ricostruire, visti i tanti cambiamenti di rotta e le tante chiusure che il museo di via Nizza ha subito.

Dietro c’è sicuramente un’idea condivisibile: come tutti i musei, anche un museo da rifondare per approdare alla contemporaneità deve trovare ancoraggio nella memoria e nella storia. Il dubbio è se per risalire il corso del tempo non ci sia altra strada che ripartire dalle ultime vecchie avanguardie scomparse, dandone per scontata la presa sull’attualità.

Per quale altra ragione riproporre in una delle sale alte della vecchia ala Peroni lo spettacolo di una stanza vuota già sfruttato da De Dominicis, corredando la didascalia con una poesia di Valentino Zeichen che ripercorre l’invenzione di un gallerista romano che invitava la gente nel suo appartamento offrendo invece di un’opera allestita la vista dei tetti attorno a piazza Vittorio? E rivendicarne la paternità ad un’altra firma, quella di Emilio Prini, emigmatico portabandiera dell’arte povera da tempo fuori scena e recentemente scomparso?

Quante volte un colpo di teatro inatteso, uno sberleffo doc può funzionare, essere riusato da altri autori, in altri anni, altri contesti, prima di perdere ogni effetto e svuotare il senso stesso, il titolo di azione d’arte?

E una domanda che funziona se si accetta una visione verticale della storia ma cade nel vuoto se, come teorizza Luca Lo Pinto, in questa mostra concepita come l’editoriale (dunque un manifesto di intenti) di un direttore che assume la guida di una testata giornalistica, il vero traguardo che si propone sembra quello di maneggiare come uno strumento orizzontale il panorama dell’arte, dove tutto si incasella in superficie. Come appunto avviene in questo percorso d’esordio del nuovo Macro, che porta alla ribalta oltre una trentina di autori, mescolando biografie ed esperienze, intenzioni e linguaggi, new entry e mostri sacri. La linea politica, insomma, è quella della contaminazione, dell’ibridazione: l’arte contemporanea, lo spirito contemporaneo è questo, facciamone una ragione. A che serve allora evocare i gesti di ribellione di Gastone Novelli e degli altri artisti invitati alla Biennale di Venezia fine anni sessanta che per far barricate contro il perbenismo borghese dell’epoca presentarono i loro quadri capovolti contro la parete a ostentare il culo ai visitatori, o l’algida risata di De Dominicis, o gli esperimenti musicali di Luigi Nono se poi al tirar le somme l’invito per l’oggi è di adeguarsi al sistema? Rappresentare il caos, senza infrangerne le regole, o almeno cercar di capirle, usando gli oggetti e le istallazioni come attrezzi e attrazioni di luna park. Vedi la passerella di tappetini, di altezza, spessore e materiali diversi, esposta nella grande sala a elle del museo ad evocare il passo squilibrato di chi entra nei palazzi dei padroni. O la pozza di glister fluorescente sparsa poco più in là che Veronica Jansens ci invita ad attraversare, neanche quello sparpagliare disordine fosse una via d’uscita verso un mondo che ci piace di più. Messaggi resi deboli dalla sensazione di già visto che li accompagna, più che dalle confuse giustificazioni che il curatore ha voluto aggiungere dove possibile ad ogni opera. Una novità non disprezzabile che almeno restituisce il microfono ai tanti, troppi menestrelli del contemporaneo, condannati all’afasia dall’invadenza dei critici ma anche dalla debolezza dei loro pensieri.

Ma sì, ridiamo la parola agli artisti. Purché non ne facciano l’uso consentito in questa mostra a Marcello Maloberti (nella foto), performer molto portato dalla troupe dei curatori modaioli, che si presenta nella sala grande al pianoterra con un campionario di foglietti attaccati al muro. Una parete di sentenze lapidarie scritte a stampatello. Tipo: «L’uomo comanda. La donna decide», «L’arte concettuale è fascista», «Pamela Prati legge Kafka». Stupidario che culmina con un elogio da stadio: «Cesare Pietrojusti è figo», reso imbarazzante e imperdonabile dal fatto che Pietrojusti, presidente dell’azienda che dirige il Macro, è di fatto il padrone di casa che l’ha prescelto e accolto.

In questo campionario d’arte usa e getta, parole spazzatura, l’unica vera chicca che questa riapertura del Macro ci riserva è un prezioso reperto d’epoca, scritto con altro linguaggio e altre regole molto più severe, quelle del documentario. È un film girato da Cecilia Mangini nel 1964, e commissionato da Luciana Castellina per conto del Pci. Uno sguardo in bianco e nero sulla vita e il lavoro femminile: Essere donna.

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