A proposito di "Dopo le fiamme"
Brucia la Spagna
Fernando Aramburu racconta i lutti e il dolore conseguenti al terrorismo nei paesi Baschi e nella Galizia. Storie di privazioni e lacerazioni interiori raccontate senza spingere mai (troppo) sul pedale della denuncia politica
«Mamma mia! Guarda come bruciano i gerani». Commento della moglie: «Meglio che brucino i gerani che la casa». Siamo in un modesto appartamento, la regione è quella basca (in lingua locale: Euskal Herria). Poco prima alcuni giovani con metà faccia coperta o col passamontagna hanno lanciato bottiglie incendiarie. Non è un episodio isolato, si ripete spesso. La donna si affaccia e prende la sopracoperta che aveva appesa a un filo per stendere. Doveva essere un regalo per la figlia, in arrivo da Oltreoceano. Ci sono buchi larghi come una padella. È da buttare o comprarne un’altra a Bilbao. Intanto gli attentatori dell’Eta (l’organizzazione che reclama la completa indipendenza dall’odiata Spagna) si sono dileguati in tempo. È una delle tante manifestazioni di guerriglia urbana che si chiama Kale borroka, estesa anche alla Navarra. Arriva una macchina della Ertzaintza, la Polizia autonoma basca. Non succede nulla. Qua e là, sui muri delle case, le scritte “Gora Eta” ( viva l’Eta). La donna è disperata, il marito si siede sulla poltrona e accarezza il suo gatto. Rassegnazione. Questo è uno dei capitoli di Dopo le fiamme, di Fernando Aramburu, che due anni fa ha vinto il premio Strega europeo (Guanda, pg. 252, 17 euro).
Dieci capitoli. O meglio: dieci situazioni di dolore, esasperazione, rabbia e umiliazioni. Il fuoco ferisce, il fuoco uccide. Per essere un bersaglio, e vittima certa, è sufficiente guidare un’auto con l’adesivo della bandiera spagnola. Nel racconto intitolato I pesci dell’amarezza, si delinea la disgrazia capitata a una ventinovenne che per caso si trovava davanti a un bancomat. L’esplosione partita dal dispenser di denaro l’ha ferita in varie parti del corpo, soprattutto a una gamba. L’arto inferiore diventerà qualcosa di simile a un lembo di carne senza nervi e senza muscoli. I suoi genitori, assieme al fidanzato Andoni (un gigante, un uomo forzuto e dolcissimo) vanno a prenderla in ospedale. Lei preferisce le stampelle alla carrozzina ed esige che l’auto si fermi davanti al mare. Piove, tuttavia la giovane, sulla sedia a rotelle si avvicina al mare e lancia in acqua le rose bianche che aveva in grembo. L’autore non le dà un nome: come dire che tutti possono essere lei. La parte più difficile, anche per i suoi genitori, è gestire una nuova vita in casa. Tutti si abituano alla lentezza. Il padre, Jesus è più incline allo sconforto, si distrae con i pesci che ha in una grande vasca. La ragazza è scontrosa, ha frequenti scatti di nervi, con la madre non conversa ma discute, polemizza finché l’argomento appassisce.
Se madre e padre sono occupati con le loro abitudini casalinghe, la ragazza pare più tranquilla. Guai a interrogarla. Con una determinazione pericolosa si fa la doccia da sola. Poi il padre la convince, a fatica, che è meglio usare la vasca da bagno. Lei accetta, il padre si rende conto di non averla mai vista nuda. Supera l’imbarazzo di fronte alla disinvoltura della figlia. Così passano gli anni. La madre è consapevole che la figlia di notte si muove per casa, la sente, si rattrista per il suo non-futuro. «Hai un orgoglio da far paura» le dice. Al marito confida che la ragazza soffre molto, anche se non lo manifesta. Deve passare molto tempo prima di raccontare brandelli di quanto le è successo quando s’era trovata accanto al bancomat. Una sera, guardando il padre che si occupa dei suoi pesci, gli dice che vorrebbe essere un pesce e non una storpia, senza pensarci due volte.
Jesus è pensionato, è la moglie Juani ad amministrare i (pochissimi) soldi. Lui vorrebbe comprare un altro pesciolino. Padre e madre entrano in una libreria. Jesus è attratto da un libro sulle piante dell’acquario. Lo rimette, desolato, sullo scaffale: costa troppo. Lo sguardo della moglie riassume i sacrifici che sono costretti a fare: «Al momento abbiamo altre esigenze». Poi la giovane donna, ormai tretaduenne, decide con Andoni di mettere fine alla loro relazione, malgrado la promessa di nozze. Il fidanzato si adegua, a malincuore. Lo si vedrà passeggiare sul lungomare al fianco di un’altra donna. Un pomeriggio Jesus, tornando a casa, pensa che sarebbe molto bello essere accolto e salutato dalla figlia. Un desiderio semplice che gli è negato. Non la vede, attraverso le finestre di casa. Si trova ad accarezzare il cane della vicina e scambiare due parole con la sua padrona.
Altro scenario, magistralmente raccontato: una camera d’ospedale. Ci sono due letti. Quello vicino alla finestra è occupato da un uomo sui sessant’anni, le cui gambe sono state bruciate da una bottiglia incendiaria. Poteva andare meglio, ma in quel momento si è tolta la giacca e ha ricoperto, spegnendolo, il fuoco che stava avvolgendo il giovane nipote. L’ha salvato così. L’altro paziente – al quale l’autore non dà un nome – è nelle stesse condizioni, ma è riservatissimo, vive nel silenzio e vuole stare dietro la tenda di separazione tra i due letti. Alla fine i due si parlano, anzi il primo, Eusebio, offre la sua cotoletta all’altro, che l’addenta con avidità, salvo poi sentirsi male e vomitare. Martina, moglie di Eusebio, una volta è dolce, un’altra è brusca. Comunque in quella stanza aleggia uno strano nervosismo: dicono che debba arrivare il lehendakari, in pratica il capo del governo basco: è sua consuetudine visitare i malati.
Tanto è vero che arriva un fotografo: la foto di Eusebio comparirà sui giornali. Il giorno dopo tocca a un giornalista che pone domande vaghe e frettolose al ferito. Martina fa la barba al marito, gli raccomanda un atteggiamento serio, “normale”. Poi pensa a se stessa: va dal parrucchiere. Inutilmente perché circola la voce che il capo basco probabilmente salterà la visita in quell’ospedale perché a Durango è stato ucciso un assessore. L’illustre visitatore, il lehendakari, con tutta probabilità darà la precedenza all’ultima vittima, se non altro perché era un pubblico ufficiale.
Ennesimo scenario luttuoso. A Marìa Antonia detta Toni, originaria della Galizia le hanno ammazzato il marito, vigile urbano, in un paese della provincia di Guipùzcoa. La coppia aveva tre figli, ormai grandi. Scrive Aramburu: «Un giorno Toni era nel suo appartamento in affitto, in una zona residenziale nella parte alta del paese, da dove si vedeva il mare fino al largo, fin dove le navi non sono più grandi della capocchia di uno spillo». Dopo il lutto, per Toni c’è l’umiliazione sociale. Una vicina di casa le dice: «Tuo marito è uno spagnolo di merda, ti sembra poco?». Circola la dichiarazione di un portavoce ministeriale in cui insinua che il morto si è andato a cercare il proprio castigo. La donna vaga per le strade, anche sotto la pioggia, incurante degli sguardi di scherno della gente. «Le ardevano in mezzo al petto» annota Aramburu «braci di umiliazione». Più avanti aggiunge: «Era, come potrei spiegarlo…un misto di sconforto e compassione nel vedere che esistono persone convinte che, per creare la patria dei loro sogni, si deve necessariamente causare il dolore al prossimo».