A proposito di “casomai avessi dimenticato”
Per non dimenticare
Matteo Cosenza, giornalista e anima inquieta della sinistra napoletana, ha raccolto in un libro riflessioni e ritratti che ruotano intorno all'identità partenopea. Che è fatta soprattutto di contraddizioni, da Eduardo a Giancarlo Siani
La sera, anzi la notte, quando le pagine del giornale erano chiuse e pronte per la stampa nella tipografia che era sotto di noi, spesso si rimaneva a chiacchierare, io e lui, nel suo bello studio di direttore. Ci raccontavamo le nostre storie di giornalisti di lungo corso, una vita spesa dentro le redazioni, frammenti di una esistenza piena di persone e di fatti, di incavolature e di esclusive, di pacchetti di sigarette e di pasti irregolari. E lui spesso aggiungeva un sorta di “tutto il dolce minuto per minuto”, la descrizione accurata di come faceva un dolce, un uovo di cioccolata oppure una pastiera per la Pasqua.
Perché Matteo Cosenza, oltre a essere una buona penna di scrittore, è anche un ottimo cuoco (ed Anna, sua moglie, non gli è da meno). Quelle conversazioni notturne nella sede del Quotidiano della Calabria a Cosenza (eh sì, nomen omen) furono delle piccole anticipazioni di quanto ho ritrovato scritto in questo casomai avessi dimenticato (Rogiosi editore, 200 pagine, 16 euro), un libro dalla elegante copertina con una sfiziosa caricatura dell’autore fatta da Riccardo Marassi, pagine di un flash back tra le carte di una vita, un cofanetto di ricordi che Matteo si porta dentro di sé attorno alle sue grandi passioni: la politica e il giornalismo.
In realtà, protagonista di queste pagine è la Memoria, la testimonianza di una generazione che ha cercato di rendere la vita bella a questo Paese. Riuscendovi solo parzialmente. C’è un abisso tra quello che ha vissuto Cosenza, e tanti altri come lui, e la realtà che ci circonda. Non perché sono passati tanti anni e le trasformazioni sociali e di costume sono inevitabili. Non perché c’è la nostalgia a far da velo. È che le dimensioni culturali e politiche hanno assunto altre dimensioni, più superficiali, meno sofferte, non ideologiche. O semplicemente sono altro.
Cosenza è stato un giovanissimo comunista di Castellammare di Stabia, un “compagno” a volte scomodo con il suo caratterino non sempre docile, e un giovane giornalista sempre curioso. Ha diretto La Voce della Campania, una gemma dell’editoria che gravitava attorno al Pci negli anni Settanta e Ottanta, un quindicinale battagliero e culturalmente “alto”; ha guidato la redazione napoletana di Paese Sera; è stato per sedici anni nel principale giornale del Sud, Il Mattino, poi si è spostato in Calabria al Quotidiano. E siccome tene l’arteteca, vale a dire non si ferma un attimo, oggi è editorialista del Corriere del Mezzogiorno, la costola napoletana del Corsera. Matteo ha “allevato” generazioni di ottimi giornalisti: Antonio Polito, Gigi Vicinanza, Enzo Ciaccio, Peppe D’Avanzo, Michele Santoro. Ha avuto incontri ravvicinati con politici e intellettuali di primo piano: Giorgio Napolitano (più scontri che incontri, in questo caso), Enrico Berlinguer, Gerardo Chiaromonte, Francesco De Martino, Giacomo Mancini. Ma anche amicizie come quella con Ruggero Zangrandi, singolare figura di giornalista in rotta di collisione con il gruppo dirigente del Pci che mal sopportava le denunce sulla tragedia dell’8 settembre e sulle responsabilità di Badoglio e dei militari. E sul male atavico degli italiani: il camaleontismo. Un bubbone non estirpato che aveva consentito agli alti funzionari dello Stato fascista, con il silenzio della sinistra, di restare ai loro posti anche nell’Italia democratica.
Ribelle come lo siamo stati un po’ tutti in quegli anni, e come è giusto che lo siano i giovani se accoppiano alla rivolta la ragione e l’utopia, Matteo scappò a Torino dopo una discussione in famiglia (suo padre, Saul, è stato una figura carismatica del Pci di Castellammare e del napoletano), nella città della Fiat, il mito della fabbrica, degli operai, degli emigrati che allora, leggiamo in uno dei capitoli migliori e più teneri di casomai avessi dimenticato, potevano essere anche veneti e non necessariamente «dei meridionali di merda». La fabbrica rimase lontana, si ritrovò a fare lo scaricatore di tubi di Eternit e di quintali e quintali di mais. Durò poco. Presto tornò a casa, a Castellammare, a Napoli.
Oggi si discute di Gomorra, «e se la fiction… nuoccia o meno a Napoli addirittura attribuendo alla rappresentazione la responsabilità della realtà che essa rappresenta», allora ai tempi della Voce della Campania ci si divideva sulla “napoletanità” polemizzando, come fece Cosenza, con Antonio Ghirelli che a metà degli anni Settanta pubblicò un saggio-inchiesta che aveva per titolo proprio la Napoletanità. «Mi sembrava, il suo saggio, un monotono ritorno a uno stereotipo tutto sommato comodo per giustificare i difetti, esaltandone i pregi, del popolo napoletano, dimenticando – si legge nel libro – le novità pur presenti come l’emergere di nuove energie sociali, politiche e culturali». Ma Mimì Rea rinfacciò al giornalista stabiese le sue tesi di «marxista convinto», insinuando, forse a ragione, non pochi dubbi «specie quando vedo che la gente fa la fila per entrare nel Teatro 2000, tempio della sceneggiata, e quando apprendo che sul San Ferdinando pendono cinquantamila prenotazioni di persone ansiose di rivedere la “napolitaneria” illustrata di Eduardo De Filippo». Una discussione – che non si è mai conclusa né potrebbe finire – alimentata allora anche da Pier Paolo Pasolini che nel saggio di Ghirelli scriveva: «Non so se tutti i poteri che si sono susseguiti a Napoli, così stranamente simili tra loro, siano stati condizionati dalla plebe napoletana o l’abbiano prodotta. Certamente c’è una risposta a questo problema: basta leggere la storia napoletana, non da dilettanti o casualmente, ma con l’onestà scientifica. Questo io finora non l’ho fatto, perché non mi si è presentata l’occasione, o forse perché non mi interessa. Ciò che si ama tende a imporsi come ontologico. Io so questo. Che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana… vive nel ventre di una grande città di mare». E si spiegava così: «Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità». La vecchia tribù «…continua, come se nulla fosse successo, a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a sfottere…». Nel frattempo la tribù stava diventando altra anche per il diffondersi del benessere («irrisorio») e per le trasformazioni urbanistiche «…finché i veri napoletani ci saranno, quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili». Dunque, si chiede Cosenza, trasferendo il ragionamento di Pasolini su Napoli alla Calabria, che cosa si deve mettere in scena? «Gli splendori o le miserie?». I “banditi” di Cutro, come li chiamava il poeta friulano, e i boss di Gomorra, oppure fare come gli struzzi e mettere la testa nella sabbia? Osserva il giornalista: «Non so se i napoletani siano una tribù, sono piuttosto convinto che quando si assolvono o quando si flagellano, due sport molto ricorrenti, di fatto deformino la lettura della loro condizione e della loro città, un po’ come abbiamo visto accadere in Calabria. Paradossalmente sono due modi opposti di fare come gli struzzi. Sarà, anche questo, un pezzo dell’identità che si cerca? Nostalgia del domani, ci ricorda Macry. Forse perché si sogna un futuro che sia come il passato che si vuole, a occhi bendati, sempre splendido splendente, bypassando il presente di cui si è parte e in qualche modo responsabili».
Non mise la testa sotto la sabbia Giancarlo Siani, il giornalista “precario” del Mattino ucciso dai “banditi” della camorra la sera del 23 settembre del 1985, un tragico fatto a cui Cosenza dedica un delicato e intenso capitolo del suo libro (“In auto con Giancarlo”). Siani fu lasciato solo. Allora l’autore del libro era a Paese Sera e criticò il direttore del quotidiano napoletano, Pasquale Nonno, per quasi nove anni alla guida del giornale. Nonno si era chiesto in un editoriale, ma anche nel corso di un dibattito televisivo in uno “speciale” del Tg1 dopo l’omicidio, «Perché proprio lui?»: «L’agguato ha le caratteristiche della camorra. Da ultimo Giancarlo si era occupato di droga. Ma se anche queste fossero ipotesi, e non possono esserlo, ancora resterebbe senza risposta quel perché… e non possiamo non domandarci se abbiamo sbagliato qualcosa o se forse non abbiamo mandato allo sbaraglio, senza accorgercene, questo nostro collega così giovane e indifeso». Riflette ora Matteo Cosenza: «Probabilmente non era nelle intenzioni di Nonno, ma l’effetto fu sconcertante perché sembrava quasi che Giancarlo avesse sbagliato qualcosa al punto da provocare la decisione della camorra di eliminarlo». Ma forse c’era anche l’angoscia di un uomo che sentiva la responsabilità di aver esposto troppo un giovane collaboratore, peraltro nemmeno assunto, mandandolo in quella Torre Annunziata, “regno” del clan Gionta. «Sbagliammo tutto» è la risposta che alcuni si sono dati anche all’interno del giornale. «L’errore, però, era nelle cose, era nel sistema», è la sottolineatura dell’autore. «Per un giovane, diventare giornalista era un sogno e un’impresa. L’abusivato era, ed è ancora, un percorso che poteva far aprire qualche porta. Ed era una strada obbligata anche se si poteva contare su una raccomandazione, perché per un direttore, ma anche per un redattore capo o un capo servizio, era più facile favorire qualcuno mandandolo per qualche mese in periferia o in provincia a fare la gavetta, affinché potesse mettersi in mostra ed essere infilato nel “pacchetto” di assunzioni che periodicamente veniva contrattato con i comitati di redazione… Procedura discutibile… un giovane si sentiva ripagato dalla firma sul giornale, da compensi modesti e dalla possibilità di entrare nel giro… Giancarlo era uno di questi giovani e andò a Torre Annunziata non sapendo che quella era la prima e ultima tappa della sua “via crucis”. Era bravo anche troppo. Pulito, perbene, colto, entusiasta. Solo. Soprattutto solo…».
Quando chiudi questo libro, vorresti chiedere a Matteo di continuare a raccontare. Di sicuro starà imbastendo qualche altra trama.