A proposito de “La scuola del dono”
La battaglia di Affinati
Fabio Pierangeli dedica uno studio alla letteratura (e all'attività didattica) di Eraldo Affinati. Una voce fuori dal coro che ha continuato a mantener fede alla sua idea di narrativa come ermeneutica della vita
Concepire la letteratura come un’offerta di sé e degli altri non è prerogativa di tutti gli scrittori. Anzi. Spesso — in particolare: oggi — si tende a considerare la cosiddetta “opera” (il romanzo, la poesia, la pièce teatrale) come qualcosa che debba celebrare con contorti mezzi stilistici un io falsamente autoriale a metà tra il responsabile della narrazione e lo scrittore stesso, il suo contraltare, per così dire, biografico. Si sprecano dunque le dieresi teoretiche tra fiction e non-fiction (con un’energia epifrastica da pulp fiction), tutte impegnate a squadrare il momento esatto in cui il soggetto-scrivente d’un balzo salta lo steccato e domina completamente l’oggetto-scritto. In tal senso l’io sembra griffarsi sui visi anonimi dei personaggi, cupi cloni incapaci di alterità: sembra moltiplicarsi, frammentarsi, anziché sparire dietro l’orizzonte dei fatti o rimanere sulla soglia, in limine litis.
Una dirittura di ospitalità, invece, campeggia la scrittura di Eraldo Affinati, analizzata con particolare rigore e interesse da Fabio Pierangeli nella sua recente monografia Eraldo Affinati. La scuola del dono (Studium Edizioni, pp. 224, € 19), suddivisa in due parti, la prima ermeneutico-esegetica, la seconda essenzialmente didattica (con la «cronistoria dei libri di Affinati attraverso un’ampia rassegna della critica militante»). Dipingendo l’autore di L’uomo del futuro e Vita di vita anche nella sua attività di insegnante alla Penny Wirton, la scuola per immigrati fondata dallo stesso Affinati e da Anna Luce Lenzi nel 2008, Pierangeli intende far emergere quel «modello germinativo dei rapporti umani in vista di una società dell’uomo integrale, in qualunque assetto economico e politico si trovi ad operare»: una «scuola del dono» appunto, «a cui bisogna tendere, dentro l’imprevedibilità delle relazioni nella società multiculturale di oggi, tenendo presente, come lo scrittore romano nei suoi libri, quell’Italia che non va in televisione o sulla stampa maggiore ma vive e lavora in un’ottica di solidarietà e sostenibilità».
Ed è persino sull’orlo della linea diegetica che si combatte la battaglia di Affinati: «In questo impasto tra scrittura ed esperienza educativa, la categoria della non-fiction non funziona per gli ultimi libri di Affinati in cui si descrive, esattamente e in modo straniante per la capacità di invenzioni stilistiche, la varietà multiculturale della Penny, senza mai arretrare davanti al compito etico di affrontare narrativamente domande esistenziali, il male, la deformità, la malattia, declinate nella attualità: l’emarginazione, i fenomeni migratori, il rischio di educare, il vuoto dei valori e dei desideri». Dalle dure domande sull’essere e dal fumigante impasto linguistico nasce un’estetica che va oltre la documentazione, pur inanellando frammenti di vita quotidiana. Ecco perché il problema non è tanto la tenuta in strada della finzione letteraria, quanto l’apparire della mimesi, del desiderio mimetico: con Tolstoj e Dostoevskij (si pensi alla parte IV dei Fratelli Karamazov, Ragazzi), passando per Pasternak, don Milani, Dietrich Bonhoeffer, Fenoglio e Rigoni Stern, Affinati si accorge, soprattutto negli ultimi libri, come «da una orfanità di ritorno e dalla conseguente solitudine si possa arrivare a fondare una comunità educativa, se al centro si pone la personalità di ogni ragazzo. “Mamma, dite solo il mio nome” — prosegue Pierangeli —, è l’invocazione dell’orfano che cerca la casa, in cui sentiamo riecheggiare il frammento di Mamma Roma, con Ettore che reclama il diritto di abitare ancora l’Eden dell’infanzia».
Si giunge così a una vera e propria «comunità educativa», dove essenziale è lo scambio osmotico del non «trattenere niente in deposito», del rimanere «con le tasche vuote», del restituire «ciò che si è ricevuto». Un’offerta assoluta delle proprie risorse molto simile all’amore nella sua declinazione agapica. Qui le possibilità del narrare si aprono alla bellezza del vissuto. Dal «vuoto pneumatico» dell’adolescenza si riesce a raggiungere una pienezza pneumanalitica (Elvira Lops, Credevo di essere qui, invece non c’ero, Aracne, pp. 128, € 12), capace di riportare l’uomo all’integralità di sé, sino all’esperienza della gratitudine per tutti gli incontri che sono sbocciati sul nostro cammino.