Pier Mario Fasanotti
Su “Breve storia della risata”

A che serve ridere

La studiosa inglese Terry Eagleton riassume in un saggio sospeso tra antropologia e psicoanalisi il significato della risata nella vita come nella letteratura. Che non sempre è un atto liberatorio: può anche essere un modo per nascondere i problemi

Viviamo tempi cupi, serpeggia l’incertezza; oltre all’indigenza che rischia di abbattersi pesantemente su un’economia già sfibrata. E invece radio, televisione e annunci pubblicitari inducono al sorriso e alla fiducia. Se ci fate caso, sul piccolo schermo, votato all’entusiasmo tricolore (non più appannaggio del calcio), non scoppia mai una risata. A eccezione, ovviamente, di spettacolini (solitamente dialettali) di mediocrissima qualità. La risata, del resto, è stata per tanto tempo una sorta di eresia nell’Alto e Basso medioevo. Le ragioni vanno cercate essenzialmente nella religione, aliena per sua natura (a parte la mistica o l’estasi: ma a questo proposito questi comportamenti vanno ricondotti alla psicoanalisi) a ogni forma di umorismo.

Ridere era disdicevole, volgare, plebeo, esecrabile, e a questo marcio grappolo comportamentale si deve includere la battuta arguta, assimilata il più delle volte all’offesa, fatta eccezione per la classe nobiliare (a quella era permesso tutto). Sarà l’illuminismo e le analisi compiute dai filosofi a scardinare i pregiudizi. In sintesi si cominciò a sostenere che il buonumore giova all’anima, ma anche (o soprattutto) ai commerci, che sono sempre stati favoriti dal clima cordiale. Tutto questo ce lo spiega un libro zeppo di rimandi colti, scritto da Terry Eagleton (docente a Oxford), pubblicato dal Saggiatore ( 189 pg. 17 euro). S’intitola Breve storia della risata.

Il Corano non è certo un esempio di leggerezza: è esempio di blasfemia scherzare su Maometto (chi vuole approfondire c’è un bel libro: Il sorriso della Mezzaluna) e scherzi e facezie sono considerati un’offesa grave, se indirizzati agli islamici di fede ultra-radicale. Vale la pena ricordare quanto è accaduto a Parigi nella redazione di Charlie Hebdo (un massacro, per reazione a una serie di vignette, è del 2015). Il testo islamico, se bene interpretato, induce alla serenità dello spirito (altra faccenda comunque è l’umorismo). La Bibbia contiene pagine molto violente, rancorose, stupefacenti per chi crede nella pietas dei Vangeli. Insomma, Dio non ride (anche se nei Vangeli apocrifi il Cristo che entra a Gerusalemme sul dorso di un asino non è solo quello che lancia anatemi e condanne, anzi). Non è storicamente comprovato, tuttavia pare che dinanzi alle tre croci ci furono molte risate (però non da parte dei romani, la cui mens politica obbediva agli ordini del Sinedrio, prima ancora di Ponzio Pilato).

Terry Eagleton pone in rilievo il fatto che «la risata è una lingua con una serie di idiomi diversi: schiamazzo, urlo, grido, risolino, insulto, fischio, sghignazzo, strillo, raglio, boato, ridacchio…». Eccetera. Diversi sono anche i modi di sorridere: va da quello raggiante a quello beffardo, da quello smagliante a quello beffardo. E aggiunge: «Il sorriso è un fenomeno visivo mentre la risata è principalmente uditivo. Il poeta T.S. Eliot, in Terra desolata, scrive «un ghigno teso da orecchio a orecchio». E così li fonde insieme. Cartesio sosteneva che la risata, come la danza, è un linguaggio del corpo (lo definiva «grido inarticolato ed esplosivo»). L’autore scrive anche che «la risata manca di senso intrinseco, un po’ come il lamento di un animale, ma nonostante ciò è riccamente densa di significato culturale, pur contenendo in sé una disintegrazione del senso comune». È una sorta di perdita di autocontrollo fisico e, per dirla con Freud (scrisse un saggio sull’umorismo) l’“Es” getta l’“Io” in un temporaneo scompiglio. Non è un caso che un eccesso di risate sia stato spesso censurato come politicamente pericoloso.

Lo scrittore ceco Milan Kundera, che spesso ha trattato il tema dell’umorismo, scriveva nel Libro del riso e dell’oblio, citando una femminista francese, affermava: «Esplosioni di risa, magnifiche, superbe e pazze… riso del godimento, godimento del riso; ridere significa vivere così profondamente…». Anche perché – come in alcune malattie – il riso è contagioso. La risata altera in un certo senso il rapporto della mente con il corpo, «senza sospenderlo completamente» (annotazione dell’autore, ndr).

Molti uomini illustri hanno riflettuto sulla risata. Charles Dickens sosteneva che la risata può essere facilmente scambiata per dolore: in entrambi i casi ci sono fiumi di lacrime. L’antropologo Desmond Morris (celebre per la Scimmia nuda) è del parere che la risata «si sia in realtà evoluta proprio dal pianto». Si racconta che lo scrittore inglese Anthony Trollope abbia avuto un infarto mentre rideva a crepapelle avendo in mano un romanzo comico. Altri sostengono che una bella risata allevia il senso di colpa. Lo stesso vale per l’humour nero.

Friederich Nietzsche osservava che «l’animale umano è l’unico a ridere perché soffre così atrocemente da aver bisogno di inventarsi questo disperato palliativo per le sue afflizioni». Anche se, potremmo obiettare che l’umorismo, soprattutto se macabro implica più di una semplice negazione della morte. Un modo di sfogare la propria rabbia contro il fine-vita.

Inevitabile citare spesso Sigmund Freud: «Esiste anche la questione del nostro desiderio inconscio di ciò che temiamo». La risata come lenimento. Con radici profonde. Freud chiama Thanatos l’impulso di morte che polverizza il significato e il valore delle cose e dello spirito, e il valore è quindi legato a quel fugace squilibrio di senso che conosciamo come umorismo. «Esso, questa forza dionisiaca offusca il senso, confonde le gerarchie, fonde le identità, scombina le distinzioni e si rivela nel crollo del significato, per il cui il Carnevale, che realizza tutto questo, non si trova mai lontano dal cimitero». Con questo, il padre della psicanalisi non odiava l’umorismo, anzi. Si deve tener conto tuttavia che siamo agli inizi del Novecento a Vienna, allorquando le separazioni sociali rimanevano (ancora) assai marcate. Freud nel Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio sostiene che «le battute rappresentino una liberazione dell’energia psichica che normalmente investiamo nel mantenere alcune inibizioni sociali essenziali». In altre parole il sorriso e la risata sono uno schiaffo sfrontato al super-io, questo “poliziotto interiore” che ci fa comprendere che nessuno è padrone in casa propria. Insomma, il super-io, con l’umorismo, può aver pietà dell’io, rafforzando così il suo narcisismo. Ci sono da fare distinzioni, ovviamente: «Nella tipologia di battuta più innocua lo humour scaturisce dal rilascio dell’impulso represso, mentre nella battuta oscena o offensiva esso deriva dal rilascio della repressione stessa».

A questo proposito circolano barzellette. Come quella di Bill Clinton e del Papa (che muoiono nello stesso giorno): per qualche errore burocratico, Clinton viene mandato in paradiso mentre il pontefice all’inferno. L’errore è stato debitamente corretto. Ma non è finita: i due, andando in direzioni opposte, s’incontrano. Il papa si dice impaziente di incontrare la Vergine Maria, ma l’ex presidente americano ribatte che, per pochi minuti, sarebbe arrivato troppo tardi.

Immanuel Kant parla della risata (nella Critica del giudizio) come «un affetto che sorge dall’improvviso trasformarsi in nulla della tensione di un’aspettativa». Sàndor Ferenczi, psicanalista ungherese, osserva che «rimanere seri «è una repressione riuscita». Va da sé che il confine tra comicità e cinismo può essere molto sottile.

William Shakespeare, nella Dodicesima notte, fa dire alla bella Olivia che «sul labbro del giullare patentato non c’è mai spirito di maldicenza». Le battute, in un certo senso, rivelano una sorta di ritorno all’infanzia, in barba a quello che Freud definiva «il principio di realtà». Si deve aggiungere, ovviamente, il sesso come una delle più frequenti battute di spirito. Sosteneva lo scrittore e poeta britannico Wyndham che «tutti gli uomini sono inevitabilmente comici poiché sono cose, o corpi fisici, che si comportano come persone». Per concludere (ma ci sarebbe tanto di cui discutere) ricordiamo quanto affermava George Orwell: «Lo scopo di una battuta non è quello di umiliare l’essere umano, ma di ricordargli che è già umiliato di suo».


Accanto al titolo, un particolare del “La risata” di Umberto Boccioni, 1911.

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