Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Vite di ricambio"

Un’ossessione teatrale

Nicola Fano nel suo "manuale di autodifesa di uno spettatore" cerca di spiegare a che cosa serva il teatro: a rendere viva la memoria collettiva e quella di sé. È il racconto di tanti incontri e di tante occasioni mancate, per spiegare come è andata in scena l'identità italiana

La magnifica ossessione di Nicola Fano si chiama teatro. Ne sono dimostrazione i suoi scritti, anche i più recenti, attraversati ed alimentati da questa sua passione, anzi per essere più precisi dalla sua realizzazione definitiva e, benché tale, sempre irripetibile e quindi sempre incompiuta. Per lo spettacolo teatrale Fano nutre un amore illimitato. È quel tipo di attrazione di cui non riusciamo a fare a meno, che vorremmo capire fino in fondo, spiegare agli altri e a noi stessi, perché è quella la passione intorno a cui ruota la vita. E lo spettacolo può manifestarsi, agli occhi dello spettatore attento, nelle forme consuete e nei luoghi deputati, ma anche in maniera insolita, che può diventare comunque altrettanto coinvolgente, addirittura commovente. La condizione perché l’incanto si realizzi è che lo spettacolo sappia condividere emozioni, dirci qualcosa di noi e del mondo, «suggerire e lanciare segnali che spesso restano sotto la pelle».

Ancor più che nei libri immediatamente precedenti, ad esempio Andare per teatri del 2016 e Che cos’è il teatro edito nel 2018, in Vite di ricambio, pubblicato in questi giorni da Elliot (pagine 112, 12 Euro), Fano ci racconta questo suo perdurante amore, facendolo diventare materia insieme autobiografica, narrativa, di riflessione etica e politica.

«Quando capii che il teatro sarebbe stato la mia vita, decisi che il mio compito sarebbe stato ricordare: scelsi di fare lo spettatore» scrive Fano. Non è affermazione da poco nella sua umiltà e, nello stesso tempo, nella chiara direzione che indica. Quando si è giovani, e Fano questa sua decisione la prende, come lui stesso ricorda, intorno ai venti anni, si sogna di fare l’attore o il regista, di guardare il pubblico dall’alto del palcoscenico o tutt’al più di fremere per lo spettacolo da dietro le quinte, non certo di essere seduto in platea. La scelta perciò ancora di più evidenzia, oltre che una chiara inclinazione, l’idea di quello che il teatro, di enorme e di impervio, di necessario e di inadeguato, ha rappresentato per Nicola Fano e può rappresentare per tutti noi. Il teatro in fin dei conti è memoria e Vite di ricambio, raccontando il rapporto dell’autore con la rappresentazione teatrale attraverso alcune tappe fondamentali della propria vita di spettatore, mette in evidenza cosa il teatro raffiguri per una società che vuole comprendere se stessa e perciò che sa ricordare. Del resto, scrive Fano, «il teatro esiste solo nei ricordi: l’atto dello spettacolo è così labile ed effimero che può trarre forza solo dalla memoria».

Il teatro diventa, in questo libro così denso e così piacevolmente accessibile, anche lo strumento attraverso il quale ricordare i caratteri e rileggere le vicende di una collettività che ha smarrito, insieme all’amore per il teatro, la capacità di sentirsi solidale, di comprendere le ragioni dell’altro. «Eravamo massa – scrive Fano per spiegare perché si senta un uomo del Novecento che non è riuscito ad adattarsi al nuovo millennio – e, in quanto tale, potevamo condividere le emozioni, le domande e le risposte». E così «da quando abbiamo smesso di essere massa, non siamo più riusciti ad essere individui, ma solo avversari». E serva questa considerazione a spiegare il sottotitolo del volume, quel Manuale di autodifesa di uno spettatore, che da una parte segnala la volontà di offrire i suggerimenti necessari per continuare a provare godimento nella fruizione di uno spettacolo teatrale, dall’altra serve a metterci sull’avviso dei mutamenti genetici che stanno deviando il corso della nostra storia e che il teatro dovrebbe, come ha sempre fatto, evidenziare.

Ogni spettacolo dovrebbe sempre dirci qualcosa sulla realtà che stiamo vivendo. Il teatro non è la realtà (1l’obbligo della finzione» a cui tutti, attori e pubblico, sono costretti, «elimina l’equivoco del realismo»), ma proprio per questo diventa la metafora per comprendere il mondo. Ad esempio, il rapimento di Moro con tutto quello che da allora avrebbe comportato («Nessuno supponeva quel che sarebbe successo dopo, ossia che quella tempesta non si sarebbe placata più. Che l’orrore morale sarebbe diventato la norma») viene da Fano preso in esame ripensando a Strehler che proprio in quei giorni al Piccolo di Milano stava provando La tempesta. A riconsiderare quell’edizione del capolavoro shakespeariano, Fano scrive: «Un’altra premonizione di Strehler (fatta inseguendo Shakespeare) è diventata palese: con il ‘78 si è consumato in modo definitivo il primato dell’arte e della cultura nella società (non solo italiana) nata dalle ceneri della guerra fascista». Dopo il ‘78, conclude Fano sulla scorta della Tempesta strehleriana, tramonta il sogno che l’arte possa cambiare la società e al centro della vita sociale comincia a esserci solo la preoccupazione economica, «intesa non come consapevolezza della pericolosità del mercato, bensì come filosofia dell’accumulo».

Vite di ricambio dunque oltre a suggerire come il teatro offra la grande opportunità di poter «vivere la vita degli altri» (non come succede oggi però, quando sembriamo affannati a inseguire qualunque compensazione alle nostre insoddisfazioni: «Il teatro è una vita di ricambio, non un surrogato»), è molto più di un “manuale di autodifesa”. È il ripercorrere una vita, quella dell’autore ma anche quella di tutta una generazione, che si raffigura attraverso alcune rappresentazioni teatrali, fissate nella memoria a partire da quel primo spettacolo visto nel 1973 «perché lo prevedeva l’abitudine scolastica». È la voglia ancora di interrogarsi, forse con nostalgia, sicuramente con passione, su quello che è stata la nostra vita sociale e politica, su come siamo cambiati, su cosa davvero ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare il teatro. È il racconto di tanti incontri, da quello mancato con Beckett (un’ossessione nell’ossessione l’amore per il grande drammaturgo: «Ho capito Beckett solo un paio di anni fa, dopo trent’anni di letture e riletture»), ai tanti che invece si sono concretizzati, con Dürrenmatt, Ionesco, Pratolini, fino ai grandi comici dell’avanspettacolo ancora alle prese con le loro gag.

Vite di ricambio è anche il veloce resoconto del viaggio che porta Nicola Fano, giornalista, storico del teatro, autore teatrale, docente di letteratura teatrale, a comprendere, proprio sulla scorta delle letture e riletture di Beckett e in particolare di quella prima lettura di Aspettando Godot imposta da una professoressa illuminata «a una scolaresca di teppisti nella periferia estrema di Roma», che «la vita è aspettare» e che «il segreto della vita è che non c’è segreto: l’unica cosa che conta è vivere».

Del resto «ancora oggi, dopo migliaia di spettacoli a incantarmi, del rito teatrale – confessa Nicola Fano –, è quella sospensione di oscurità quando l’illuminazione in sala è già spenta e il sipario non è ancora aperto. Vivere è aspettare e desiderare, dico spesso agli altri e ancora più spesso a me stesso. Il teatro è una buona scuola di attesa e di desiderio».

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