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Sostiene Mishima
Le sentenze (tra pessimismo e esaltazione) di Yukio Mishima, le solitudini (tra cinema e letteratura) di Gianni Di Gregorio e la quotidianità (tra Est e Ovest d'Europa) di Georgi Gospodinov
Il samurai. Spesso facciamo fatica a comprendere lo spirito profondo della letteratura giapponese. Ancora di più capire appieno Yukio Mishima, candidato per tre volte al premio Nobel. La sua esistenza, intrisa di contrasti ed eccessi, presenta un doppio risvolto (come annota Alex Pietrogiacomi nella prefazione). Educato dalla nonna (che risultò essere un giogo emotivamente malato) alla femminilità e al tempo stesso alla spinta virile, fu la madre a infondergli la dolcezza e, se possibile, l’equilibrio. Di Mishima segnaliamo l’omonimo titolo (Alcatraz editore, 159 pg., 12 euro). È una raccolta di sentenze, di spunti fulminanti.
Scrittore (suicida 20 anni fa con il rito del suppuku) apprezzato da pubblico e critica, affermava, non senza una ragione: «Ho nutrito per anni il sospetto che qualcosa di vile si celi sempre sotto la superficie della letteratura». Sapeva stigmatizzare certi costumi sociali: «La ribellione di un gruppo di stolti non potrà mai andare oltre una gretta imitazione». O anche: «Oggi impazzano gli amori pigmei». Altra stoccata: «Oggi viviamo in un mondo in cui si può disinvoltamente passare dalla tuta da lavoro allo smoking». Coerentemente a come si comportò seguendo un’attitudine belligerante, eroica e tradizionalista, quest’uomo gracile e minuto, dichiarò che «diventare kamikaze significa divenire noi stessi una divinità».
Solitudine. Si vorrebbe andare lontano, poi ci si accorge che la realtà circostante non è poi così male. Anzi, è fonte di piccole felicità, basta fare attenzione a chi si incontra. Gianni Di Gregorio, per chi segue il cinema, ha dato il meglio con il film Pranzo di ferragosto (2008). Una pellicola intrisa di mestizia, pazienza, delicatezza. Il nuovo libro di Di Gregorio (Lontano lontano, Sellerio, 181 pg., 13 euro), da cui l’autore ha tratto il suo nuovo film omonimo, è un trittico, che mescola questi stessi elementi facendo ricorso a un linguaggio che è la sintesi dell’arguzia e della bonarietà capitolina. Questo lessico è spesso un’arma corrosiva, più simile però a un boomerang che non a una spada. Nella prima parte (intitolata Ajon, nella mitologia figlio di Crono, il Tempo) c’è il soliloquio di un cinquantenne che abita con la madre malata, tirannica, e un poco millantatrice. L’asseconda in tutto Mai si augura mai la sua morte, anche perché è lei, e non lui, che ha la pensione. Ed è la pensione, la vera “piramide di ogni uomo”, il pensiero fisso: «Con quella siamo immortali». Scende in piazza Renzi (zona Trastevere), va a fare la spesa, compra le medicine per la mamma, fa due chiacchiere con chi incontra, si rammarica di non potere aiutare i poveri. Osserva i “cavallari”, quelli che giocano e sperano di vincere, è consapevole che sono quelli «gli ultimi pezzi di Roma, mischiati alle signore eleganti col cagnolino». Un giorno, con grande fatica (lui è grasso) porta fuori la madre: «Siamo un presepe semovente», sorride tra le persone del vicinato. Un giorno si accorge che la donna non respira più. Ci mette tempo a realizzare che è morta. Che fare senza pensione? Immagina “quelli della banca” che lo costringono a uscire di casa. La sua amarezza, che rifugge da tonalità drammatiche, scivola in sogni vaghi, universali. Di amara libertà.
Estraneità. Mangia un pezzo di pane, poi raccoglie le briciole sparse sul tavolo perché si deve mettere a scrivere. Ma prima apre il giornale locale senza tuttavia capire la lingua e quindi il senso delle notizie. Un’occhiata alle previsioni del tempo, un pensiero ai cipollotti appena spuntati e al ciliegio in fiore nel cortile. Alla fine conclude: «Sono pieno di premure per un mondo a cui non appartengo». Questo è uno dei fulminanti e brevi pensieri che annota Georgi Gospodinov (in Tutti i nostri corpi, Voland editore, 143 pg., 14 euro). E così si muove tra il grottesco, il comico e il malinconico il narratore che i critici definiscono il più raffinato della Bulgaria. Per un mese intero un altro uomo non riusciva a ricordare il nome della donna di cui era stato innamorato tanto tempo fa. Ricordava un sacco di particolari, per esempio come si assestava i capelli, come si sedeva per terra, e così via. All’improvviso, una sera, la memoria torna e lui grida: «Lila… Lila!». La moglie si sveglia e gli chiede: «Che c’è? Perché mi chiami?». Stesso autore, stesso editore, una sorta di aggiunta: …e altre storie , 108 pg., 12 euro). I pisciatoi maschili in Germania sono lindi, ma al centro di ognuno c’è una mosca. Ti avvicini e scopri che è solo dipinta. Allora pensi che lo scopo è solo «pragmatico»: si ha bisogno di quello strano bersaglio, forse lo si vuole distruggere. E se si urina in un paese dei Balcani? Le mosche sono tutte vere e ce ne sono tantissime. Così fastidiose e vomitevoli da ricordare che non vale la pena raccontare questi particolari a nessuno, figuriamoci alle signore. C’è poi il rischio che tutto si trasformi in allegoria. Allora Gospodinov giunge a questa conclusione: «Ormai nessuna storia può più essere inoffensiva».