Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Internazionale razzista

Lo sdegno per l'omicidio di George Floyd, ormai, dilaga nel mondo. Ma anche il cancro del razzismo travalica i confini. E non da oggi. Negli Usa, forse, è più evidente in questo momento a causa dell'assenza di leadership della Casa Bianca

Per qualunque americano l’immagine dell’uccisione di George Floyd non è un’eccezione. Purtroppo è divenuta qualcosa che si ripete ormai da troppo tempo e troppo di frequente. A parte il dolore dei tanti che sentono nella carne viva del proprio corpo bruciare la ferita di un dolore cosi grande come quello di vedere di continuo il proprio paese diviso e senza un leader capace di guidarlo, c’è lo sdegno per una comunità, quella nera, che di nuovo è stata ferita a morte da una violenza insensata e non più sopportabile. I miei amici, i miei colleghi neri in questi anni sono stati sottoposti a inutili fermi, a perquisizioni senza motivo, a volte anche ad arresti senza apparenti ragioni che lo motivassero solo perché neri. E continuano a ripetermi che quando sentono la polizia con il megafono, come fa di solito quando opera un fermo, dire “pull over” (si accosti), sono terrorizzati al pensiero di un incontro ravvicinato con le forze dell’ordine.

Ricordo ancora un episodio personale quando anni fa ebbi un incidente in bicicletta. Fui investita da un giovane nero che, guidando un SUV, a uno stop in uscita dal tribunale per entrare nella strada principale non mi vide, mentre venivo, alla sua destra, da un marciapiede ciclabile e partì distruggendo la mia bicicletta e provocandomi un ematoma che da sopra al ginocchio andava fino all’inguine. Dopo pochi minuti arrivarono tre macchine della polizia e, prima ancora di parlare con noi per conoscere la dinamica dell’incidente, immediatamente ammanettarono il ragazzo. Quando reclamai chiedendo il perché delle manette che non mi sembravano necessarie, l’officer seccato mi rispose che, se non lo sapevo, quella era la prassi e che comunque non erano fatti miei. Poi mi chiese, visto il sostanziale danno fisico e alla bicicletta, se volevo denunciare il ragazzo. Quando risposi di no, che forse non era interamente colpa sua, perché guidando il suo fuoristrada dall’alto non mi aveva visto perché ero troppo in basso e dunque fuori dalla sua visuale, il poliziotto si arrabbiò insistendo che dovevo denunciarlo. Non lo feci. Mi sono sempre chiesta se il poliziotto avrebbe avuto lo stesso comportamento se l’investitore fosse stato bianco.

Il trattamento diverso dei neri negli States ferisce la dignità di qualsiasi essere umano che voglia definirsi tale. Non ci si abitua mai. È quel qualcosa che, in una delle tante occasioni nefaste legate a questi fatti di violenza razziale, ha fatto piangere Obama che da presidente ha dovuto commemorare l’ennesima vita di un nero spezzata per mano della polizia. Poi ci sono quotidianamente quelle distrutte dalla droga, dalla violenza delle gang nei quartieri più isolati e infine quelle che si perdono per la mancanza di futuro. Tutti questi elementi messi insieme determinano l’apartheid di una comunità intera. Che pure tante altre volte è scesa in piazza per piangere i suoi morti.

Ma questa volta è diverso. Sul piano interno e internazionale.

L’elemento nuovo delle manifestazioni che in tutta l’America continuano a succedersi in questi giorni in modo capillare senza accennare a placarsi, con migliaia di persone nelle strade, è che, oltre ai tanti bianchi che sfilano insieme ai neri in numeri mai visti prima, la polizia, in moltissimi casi, si schiera con i manifestanti: i poliziotti in uniforme si inginocchiano in silenzio in segno di rispetto di fronte a chi protesta con il pugno chiuso alzato in segno di solidarietà. Per chi ha un passato di sinistra quel gesto è simbolo di socialismo e comunismo e curiosamente alcuni degli slogan dei manifestanti di Black Lives Matter tra cui no justice no peace non si allontanano molto da quegli obiettivi di trasformazione sociale.

Spesso gli uomini delle forze dell’ordine sfilano nei cortei di protesta assieme ai manifestanti i quali scendono in piazza in tutto il paese a dispetto dell’imperversare del coronavirus, forse perché il razzismo è un virus che funesta il mondo da molto più tempo del Covid 19. E dunque è adesso il momento di sconfiggerlo. Vale tuttavia la pena ricordare che il coronavirus ha colpito e colpisce di più la comunità nera proprio per le sue condizioni di vita più precarie, per le numerose malattie endemiche che affliggono i suoi appartenenti, come il diabete e le malattie cardiocircolatorie che si sa rendono letali gli effetti del virus, e per la loro maggiore difficoltà a mettere in atto pratiche di isolamento. Molti di essi, scesi nelle strade delle metropoli americane in questi giorni, hanno infatti ribadito che sono pronti a mettere in pericolo le loro vite con il virus se questo consentirà ai figli e ai nipoti di vivere una vita più umana in un paese dove le ingiustizie razziali siano finalmente eliminate.

Spike Lee, colpito dall’immagine dei poliziotti in ginocchio, la paragona a quella di Colin Kaepernick il quarterback della squadra di Football di S. Francisco che dal 2016 non si alza più quando viene suonato l’inno nazionale americano proprio in segno protesta nei confronti delle brutalità della polizia e per questo è stato ostracizzato dalla NFL e redarguito anche dal presidente Trump. Lee afferma: «C’è bisogno di mostrare più di frequente quell’immagine. Colin Kaepernick è un vero patriota». Molti uomini del mondo dello spettacolo e dello sport in America, oltre al regista afroamericano, si sono espressi in favore di cambiamenti radicali o hanno fatto donazioni alla comunità nera, come Michael Jordan. Molti CEO di società come Apple, Facebook, JP Morgan Chase, Amazon, Nike, Netflix ed altre hanno preso una netta posizione a favore di trasformazioni sociali e affermato che stanzieranno fondi per aiutare il mondo imprenditoriale afroamericano.

Nel mezzo di tutto ciò, Trump è assente, si dimostra non all’altezza della situazione. Ci vorrebbe infatti una leadership equilibrata in grado di ridurre le tensioni sociali e razziali con provvedimenti efficaci e significativi. Invece non interviene e, se lo fa, lancia slogan infiammatori (when the looting starts the shooting starts) che dividono e incoraggiano alla violenza. Oppure si dichiara il presidente di law and order con una implicita presa di posizione in favore della polizia. O, peggio ancora, la fa intervenire per caricare un gruppo di manifestanti pacifici a Washington solo per farsi fotografare di fronte a una chiesa – dove non è poi neanche entrato – a scopi puramente elettorali. E provocando la reazione del suo vescovo che lo ha accusato di essersi servito di lei per veicolare un messaggio antitetico a quello della sua chiesa. Anche alcuni di quelli che sono stati i collaboratori più stretti di Trump accusano il presidente di essere divisivo e di non assolvere il compito di appianare i contrasti e le violenze. Tra di essi ci sono due generali: l’ex ministro della Difesa James Mattis e l’ex capo gabinetto John Kelly. Quest’ultimo ha messo in guardia sul fatto che è importante essere coscienti su chi si manda alla Casa Bianca. Mattis, poi, ha addirittura affermato che è fin troppo evidente che il comportamento delle forze dell’ordine con George Floyd è riprovevole e si prende gioco della Costituzione americana. E dunque schierarsi con loro significa non essere in grado di guidare il paese. «Donald Trump – ha dichiarato Mattis alla rivista The Atlantic del 3 giugno 2020 – è il primo presidente nella mia vita che non solo non cerca di unificare il popolo americano, ma non si sforza neanche minimamente di farlo. Noi stiamo assistendo alle conseguenze di tre anni di mancanza di questo preciso sforzo. Stiamo assistendo alle conseguenze di tre anni senza una leadership equilibrata. Possiamo essere uniti senza di lui trovando la forza nella nostra società civile. Non sarà facile visti gli eventi dei giorni passati, ma lo dobbiamo ai nostri concittadini, alle passate generazioni che sono morte per difendere la nostra promessa e ai nostri figli». Sono affermazioni pesanti che vengono da personaggi importanti dell’establishment militare e che dunque testimoniano della debolezza delle scelte presidenziali. Sebbene ancora troppi repubblicani continuino a giustificare l’atteggiamento del presidente. Alle accuse di comportamento irresponsabile si aggiungono quelle del generale Colin Powell che ha affermato che Trump è inaffidabile, perché mente e quelle di quattro ex presidenti degli Stati Uniti che ne denunciano il comportamento divisivo: Obama, Bush Clinton e Carter.

Ma poi c’è un livello internazionale che rende queste manifestazioni diverse da tutte la altre.

Non basta ripetere che l’America è un paese razzista, testimoniare la propria partecipazione «di fronte al dolore degli altri», come ricordava Susans Sontag e come fa molta stampa internazionale. Per carità, sono comportamenti essenziali, ma oggi ci vuole una diversa consapevolezza. Il razzismo infatti assume forme infide e pericolose a volte anche in coloro che l’osservano con sdegno e per questo credono di esserne indenni. Perché, come ha detto ancora Spike Lee, è un problema mondiale, nessun paese ne è esente. Lunedì scorso il regista afroamericano ha fatto uscire un corto di 90 secondi intitolato 3 Brothers-Radio Raheem, Eric Garner and George Floyd. Il documentario si apre infatti con la scritta “La storia smetterà di ripetersi?” implicitamente lanciando un’accusa che travalica i confini nazionali. È stato presentato durante l’apparizione del regista nello speciale di Don Lemon, giornalista nero di CNN I Cant’ Breathe: Black Men Living and Dying in America. C’è un filo rosso tra il suo film del 1989 Fa’ la cosa giusta dove il protagonista Radio Raheem (l’attore Bill Nunn) viene ucciso dalla polizia e i video di Eric Garner e George Floyd rispettivamente uccisi nel 2014 e pochi giorni fa anch’essi dalla polizia. Intervistato da Lemon, Lee che si è presentato con una maglietta con la scritta 1619, l’anno dell’inizio della schiavitù negli States, ha dichiarato: «È sempre la stessa storia di nuovo, di nuovo e di nuovo… Gli attacchi ai corpi dei neri sono stati qui fin dall’inizio e vengono da lontano. Dall’Europa. Da quando questo paese esiste, si è costruito sulla spoliazione dei territori rubati ai nativi americani e sul genocidio dei neri. Non sono affatto d’accordo con le violenze di questi giorni, ma capisco da dove vengono e perché certi individui fanno quello che fanno».

Le parole di Spike Lee sull’universalità del razzismo e sul suo essere presente nel mondo anche prima che in America, fanno riflettere sulle manifestazioni antirazziste di solidarietà con quelle degli States. Adesso stanno avvenendo in tutto il mondo e anche questa è una cosa senza precedenti. Dal Canada, all’Inghilterra, alla Francia, all’Italia, alla Germania, alla Spagna alla Corea del sud, alla Nuova Zelanda, migliaia di persone scendono in piazza. In nome di George Floyd. Bene fa Spike Lee a ricordarci che questo pericoloso virus nasce con il colonialismo europeo in Africa per mano di quegli stessi paesi che oggi, per fortuna, manifestano contro di esso. Basta leggere un libro che consiglio a tutti, Gli spettri del Congo di Adam Hochschild sul colonialismo belga in quel paese per capire il livello di violenza delle potenze europee in quell’intero continente e contro la sua gente. Quando Giobbe Covatta, parlando dell’Africa, dice che non ha debiti che deve saldare per gli aiuti che riceve, ma solo crediti nei confronti dell’Europa, ha perfettamente ragione. Quella filosofia colonizzatrice ha determinato tuttavia un modo di pensare che si è sedimentato nei secoli e che prima con la schiavitù e poi con la segregazione ha trovato il suo zenit proprio in America.

E non è bastata la legge sui diritti civili del 1964 a distruggere un modo di pensare che si è incistato nell’immaginario collettivo del paese, protraendosi nel tempo. Tuttavia i fatti di questi giorni autorizzano a pensare e a sperare che, se certo il dolore e la pena inflitti a un intero continente spogliato della sua gente e delle sue risorse saranno difficilmente sanabili in tempi brevi, questa volta le manifestazioni globali di solidarietà contro il razzismo denunciato dalla comunità afroamericana vadano oltre la semplice testimonianza. Richiedono infatti trasformazioni epocali. In questo senso il rispetto e la fiducia nella democrazia americana sono ancora vivi. E se l’America riuscirà a dare delle risposte alle richieste che vengono ormai da tutte le piazze del mondo lo rimarrà anche la sua leadership.

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