Andrea Carraro
A proposito di "Chiodi storti"

Libertà bambina

Torna un illuminante romanzo/reportage di Nando Vitali sul disagio sociale a Napoli e il suo rapporto con libertà e creatività. Un anno di vita ricca e "pericolosa" con un gruppo di ragazzi di Ponticelli che seguono una scuola di scrittura

Chiodi storti, da Ponticelli a Napoli centrale, di Nando Vitali, riveduto, ristampato da Iod editore, dopo la prima uscita del 2009 con la Compagnia dei trovatori, non è un romanzo epico, drammatico, come lo sono i tre libri successivi che ha pubblicato lo scrittore napoletano – I morti non serbano rancore (Gaffi) e il successivo Bosseide – la fascinazione del male (Gaffi); e infine Ferropoli (Castelvecchi); è piuttosto un romanzo allegorico, meditativo, sul potere salvifico della scrittura, dell’arte, di ispirazione autobiografica, che racconta un’esperienza di insegnamento di scrittura creativa e disegno con una quindicina di ragazzini “a rischio” di una scuola di periferia degradata napoletana, Ponticelli appunto, durata un anno. Le fisionomie dei bambini emergono a poco a poco, attraverso le lezioni nella scuola, ultravitali imprevedibili ardue: «Un’esplosione incontrollata di materia grezza» – così appaiono quei bambini, allo scrittore che si trova di fronte le prime volte «lava umana ed energia potente che eruttava in maniera quasi spontanea ma molto pericolosa».

Un’energia che viene fuori in tante occasioni durante la lunga durata del corso, anche durante la visita al museo di Capodimonte, tumultuosa, ma straordinariamente ricca di rivelazioni, e in altri momenti significativi e drammatici dentro e fuori la scuola, l’incidente mortale di un ragazzino tanto simile a loro, su un qualche raccordo stradale della città, cui allo scrittore capita di assistere temendo che si trattasse di uno dei suoi scugnizzi, la lotta fra due di loro, una sorta di scontro selvaggio a calci e pugni, sotto gli occhi ammirati rapiti delle ragazzine e quelli attoniti dei docenti incapaci di intervenire nel tumulto generale esploso nella classe. Al museo di Capodimonte quella torma di ragazzini esagitati, sboccati, maleducati, che schiamazzano, si azzuffano, sporcano dappertutto, fanno uscire fuori dai gangheri il personale del museo, soprattutto un certo custode che continua a polemizzare anche fuori sulla strada, apostrofandoli in modo offensivo e minacciando provvedimenti. Lo scrittore e la maestra che lo affianca cercano di mediare, – e qui entra in scena un insolito spiazzante elemento romanzesco, viene sfigurato e rubato segretamente un Tiziano da uno dei ragazzini… e la cronaca reportagistica-memorialistica diventa nell’ultima sezione una specie di favola sociale, allegoria di un riscatto forse impossibile ma necessario attraverso l’arte, la cultura, la solidarietà reciproca, il rispetto per i diversi, l’onestà (il bambino che danneggia e ruba, Pietro, il più duro, il più ispido, poi restituisce pentito il maltolto…).

I chiodi storti del titolo sono con ogni evidenza a loro volta metafora, di vite [dei bambini] già segnate, già forgiate dall’ambiente violento e maschilista in cui essi sono spesso costretti a vivere, in zone ad alta densità camorristica, chiodi che non si possono raddrizzare con l’autorità, con la forza, che non si possono istruire ex-cathedra, come ci spiega e ci mostra l’autore a più riprese nel corso della narrazione con tanti esempi e una quantità di metafore e similitudini (questo è un romanzo densamente metaforico) – ma si possono solo affiancare, accompagnare, si può solo provare a condividere con loro un pezzo di cammino, come ha provato per alcuni mesi a fare lui coadiuvato dalla maestra e collega Paola… un po’ come succede anche nella Scrittura creativa, che Nando Vitali insegna a Napoli da anni, Isola delle voci,  con una decina di allievi molto affiatati fra loro, a cui ci è capitato di assistere e partecipare.

Le due attività paiono ispirarsi a una stessa filosofia pur nei diversissimi contesti – quella della condivisione, perché l’arte, la scrittura, non si può insegnare, si può solo eventualmente provare a trasmettere e soprattutto condividere, in uno scambio mutuo, continuo, osmotico, fra discepolo e maestro, che cambia e trasforma entrambi. Uno dei capitoli del libro si chiama significativamente Il corpo, ed è proprio attraverso l’esperienza del corpo – la disabilità magica, straniata della piccola Celeste che lo scrittore identifica con la Madonna della processione: «A Madonna sta chiagnenno», la selvatica durezza di Pietro, Gemma, la più carina e smorfiosa, che fa comunella coi maschi, che da grande vuole fare l’infermiera, «così giro per le case a fare le siringhe…» ecc. – è sempre attraverso il corpo che si stabilisce un canale di comunicazione vero con quei bambini cresciuti sulla strada, che in certo momenti sembrano toccati dalla grazia, in altri paiono invece quasi posseduti da una forze oscura, ribollente, minacciosa…

Questo è un libro scritto da un uomo ma parla moltissimo della condizione femminile in un contesto come quello delle periferie napoletane più disagiate, che si percepisce con evidenza anche in quel microcosmo infantile scolastico, che in fondo non è tanto diverso da quello che lo stesso scrittore ricorda della sua infanzia: «Mio padre faceva a pezzi mia madre, e io dovevo dimostrare fedeltà partecipando al banchetto. Un rito d’iniziazione che veniva trasmesso da padre in figlio. In quella sala d’aspetto che era l’infanzia, le punizioni erano la regola, l’umiliazione andava esagerata perché rimanesse impresse nella mente».

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