Una ballata del secolo breve
Effetto Kinshasa
Inizia con questo, una serie di reportage dal mondo: racconti di giornalismo, avventure, guerra e pace nei luoghi delle grandi crisi del Novecento. A cominciare da Kinshasa, nel pieno di una guerra civile africana
Ultimo, disperato tentativo: da Nairobi proviamo a raggiungere Kigali passando da Kinshasa. Dopo un placido volo l’aereo frena e stride sulla pista sconnessa, infine si arresta in mezzo al nulla. Camminare – sì camminare – fino al Terminal dentro una nuvola rovente, sotto un vento di fuoco che scuote le palme scheletriche all’orizzonte. Sull’asfalto che ribolle, la preda è nuda: bianchi e giornalisti, europei con valige e borsoni: troppo bello per non approfittarne.
Così un manipolo di individui in uniforme ci circonda appena entrati nel soffio ristoratore dell’aria condizionata. «Apri la valigia, dammi il passaporto, fammi vedere». E ridono, ti strattonano, chiedono a gesti: «souvenir, souvenir…» Soldi, mancia, dolars, dinero… siamo perduti. Massimo urla qualcosa in francese e si aggrappa alla telecamera, io provo a divincolarmi. Ma loro hanno i nostri passaporti, cercano tra i nostri documenti e frugano i portafogli, poi chiudono alla meglio le valige trascinate a terra e ci accompagnano quasi a spintoni dentro un ufficietto.
Dietro la scrivania, il piccolo funzionario ci scruta con sospetto, sfoglia le carte e non dice nulla. Io in inglese e Massimo in francese cerchiamo di spiegargli che ci hanno appena derubato: «Proprio loro, sir, quelli che sorridono alle nostre spalle». L’uomo fa una smorfia mesta, un gesto come a scacciare una mosca e ci restituisce i documenti senza una parola: siete liberi, potete andare.
L’incidente è subito dimenticato: il più grosso mi prende sottobraccio e trascina la mia valigia. All’uscita, nel riflesso del sole che acceca e tra soffocanti sbuffi di combustione, ci accompagnano così i nostri stessi aguzzini in divisa, sorridenti e gioiosi come vecchi compagni di bevute. Taxi? ah, il taxi è già pronto per voi. Quella vettura rattoppata con fogli di cartone che si pianta a lato del marciapiede sbrecciato è di un amico del mio nuovo protettore: un ragazzo mingherlino e loquace che sa già dove deve portarci.
A Gombe ci porta, e dove se no? Gombe: il quartiere esclusivo delle ambasciate, degli Hotel di lusso e degli uffici governativi. L’auto fila e tossisce e si divincola nel traffico infernale. Lungo il tragitto mi vengono in mente le minacciose raccomandazioni lette sul sito dell’Ambasciata: «Non possono escludersi anche barricate improvvise, in particolare lungo l’asse stradale tra il centro città di Kinshasa e l’aeroporto».
Aspettando dunque l’intralcio imprevisto di qualche barricata, affrontiamo il caotico paesaggio umano – un impasto infernale di suoni colori odori – fino a quando un bell’albergo in stile coloniale ci apre le sue braccia generose. Nella hall, una grande targa in ottone mette le cose in chiaro. Più o meno: «La sicurezza di questo edificio e delle aree circostanti è assicurata 24 ore su 24 dalla nostra Pcm (Compagnia militare privata). Per qualunque servizio in città vi preghiamo di rivolgervi ai nostri uffici».
Bastano poche ore per capire che siamo in trappola. L’albergo è come una lussuosa nave da crociera che naviga su un oceano di merda infestato da squali affamati. Se esci come semplice turista ti spogliano nudo, se esci con la telecamera ti tirano il collo. La città è un lazzaretto a cielo aperto che di giorno ronza come un alveare impazzito e di notte si serra in un minaccioso silenzio di tomba. Il tam tam ripete: Mobutu (nella foto) ha i giorni contati, Kabila è qui.
In breve: Laurent Kabila, il capo clan che nel lontano 1965 fece perdere la pazienza e la guerra ai cubani del Che Guevara sbarcati in Congo per innescare una rivoluzione africana, è di nuovo in pista, alleato questa volta con gli ex nemici del Burundi e del Ruanda. Nell’estremo est, il sud Kivu è ormai nelle mani dei rivoltosi e il morbo della rivolta si allarga a infettare tutto il corpaccione dello Zaire.
Brutta, bruttissima notizia. Con la guerra civile alle porte e con Kabila che prepara la marcia su Kinshasa insieme ai suoi alleati Tutsi ruandesi, nessun aereo decollerà mai dall’aeroporto N’Djili in direzione di Kigali.
Così la nostra misera strategia giornalistica è fallita e noi stessi siamo ostaggio di una complicata crisi internazionale: sul bordo di una piscina e con bottiglie di vino al ristorante, ma pur sempre ostaggi. Steso sul lettino sotto le palme, il mio impagabile amico e cameraman Massimo – detto “o’ barone” – segue alla lettera la regola ferrea delle missioni all’estero: in caso di intoppi il giornalista è tenuto a scervellarsi per risolvere la questione, nulla è invece richiesto all’operatore che lo accompagna. Dunque: la notte o’ barone ronfa nella camera accanto, mentre io mi abbandono a terribili incubi sotto le candide lenzuola di un letto king size.
Obiettivo: tornare a Nairobi, subito. I servizi dell’hotel sono perfetti: l’aereo c’è, il biglietto anche, ma il volo parte alle quattro di notte, e infilarsi a notte fonda nella trappola dell’aeroporto di Kinshasa equivale al suicidio. Così bussiamo alla porta del lussuoso ufficio dei contractors della sicurezza, dove risulta che la Private Military and security company dell’albergo è formata da ex militari israeliani. «Yes, sir, possiamo organizzare: un servizio di quattro uomini armati, secondo tariffa notturna».
Notte sotto cattivi auspici. Il cielo è nero come la pece, una brezza che odora di petrolio soffia dai quartieri della città addormentata. Nel posteggio dell’albergo – a bordo di una sfolgorante camionetta – ci prendono in consegna senza una parola quattro giganti bianchi ben nutriti e armati di Ak47.
Tutto si svolge come in sogno: con piglio militaresco attraversiamo indenni la grande sala d’aspetto trasformata in un gigantesco bivacco. Al primo controllo il funzionario sorridente chiede un souvenir, e mi tira per la manica: niente mancia niente passaggio. Mi rivolgo al mio angelo protettore e lui spiega paziente: «Sir, noi siamo incaricati di garantire la vostra incolumità, non possiamo interferire sulle procedure di imbarco». Così, l’incubo ricomincia. I controlli sono due, poi tre, e a ogni controllo dobbiamo sganciare. Noi furiosi e impotenti, i nostri accompagnatori con volti impenetrabili. Ci spennano, sì ci spennano ancora una volta, finché – prima dell’ultimo gate – restiamo di nuovo soli e abbandonati. Tra noi e l’imbarco rimane solo una bella ragazza in uniforme. Sorride, io sorrido, mi sento finalmente libero. Lei mi guarda in faccia e con il passaporto ben stretto in mano sussurra dolcemente: «Souvenir si vous plait…».
Quando si spalancano le porte di vetro sulla pista ci accorgiamo che sopra Kinshasa si sta abbattendo una tempesta tropicale. La pioggia crepita sull’asfalto, le luci dell’aereo lampeggiano fioche in lontananza. A piedi dobbiamo farcela, con bagagli e tutto. Massimo bestemmia, io pure. Alla fine della marcia ci attendono cinque minuti di sosta sotto la scaletta, per consegnare i bagagli fradici. Ma che importa? ormai siamo ascesi a un insensibile nirvana.
Dentro la pancia fredda dell’aereo ci accorgiamo di essere zuppi e puzzolenti come cani bagnati. Uno strappo, la pioggia furiosa riga i finestrini, nel rombo dei motori Kinshasa è una bassa costellazione di luci nell’ oscurità. Infine un bip e una lucina rossa che si accende: le nuvole sono sotto di noi, tra i sedili si allarga un silenzio di culla. E la pace ci accoglie.
P.S. poi in Ruanda ci siamo arrivati, ma questa è un’altra storia.