A proposito di “Delitto Neruda"
Inchiesta su Neruda
Roberto Ippolito ricostruisce in un'inchiesta appassionata tutti i misteri della morte del grande poeta cileno con ogni probabilità avvelenato dal regime di Pinochet che ne temeva il prestigio internazionale e la sua capacità di coagulare l'opposizione
«Nel piccolo ambiente del Cementerio dove vengono collocati diciannove anni dopo la morte, i resti del poeta stupiscono il nipote perché riconoscibili e perché “basterebbe aggiungere un po’ di pelle per avere il Neruda di sempre”. Oltre alla cintura, trovata chiusa con il foro solitamente usato, nella cassa ci sono dei pezzi della giacca. Niente scarpe, invece. Non ci sono mai state: la bara, trovata sotto l’opprimente cappa della dittatura e con tante vittime alle quali dare sepoltura, non era grande a sufficienza per l’altezza del poeta, sepolto scalzo».
In questo brano ci Delitto Neruda (Chiarelettere), Roberto Ippolito fa riferimento al secondo spostamento della salma (1992), al quale ne seguiranno altri due negli anni successivi, fino ad oggi. Ossia fino a questo libro che forse darà pace definitiva a Pablo Neruda, che in vita girò il mondo varie volte ed in morte non smette di passeggiare ancora fra tribunali, ospedali, caserme, case editrici e librerie. Patas de perro (piedi di cane) fu dichiarato scherzosamente in Cile per il suo pellegrinare fra paesi e continenti, e tale rimase fino alla morte, quando gli tolsero le scarpe per farlo entrare nella bara troppo piccola per lui. Entrò nella morte senza scarpe il poeta, lui che nella casa di Isla Negra ne aveva una collezione capricciosa fatta di sandali, stivali, babbucce, pantofole, espadrillas ed ogni altro ritrovato di cuoio, stoffa o corda che aiuta l’uomo a mettere pace fra piede e terra. Inguaribile vagabondo, molti anni prima, a Madrid, di ritorno da Java, aveva immaginato nella poesia “Solo la morte” che le bare un giorno potessero avere una vela e navigare nel mare del silenzio: «A volte vedo/ solo bare a vela/salpare con pallidi defunti, con donne dalle trecce morte,/…bare che salgono il fiume verticale dei morti,/il fiume livido/ in su con le vele gonfiate dal suono silenzioso della morte./ La morte arriva a risuonare /come una scarpa senza piede, un vestito senza uomo,/ riesce a bussare come un anello senza pietra nè dito,/ riesce a gridare senza bocca, né lingua, né gola», da Residencia en la Tierra 1935.
Tutti camminiamo nel mondo, compresa la morte, accompagnata dai cadaveri che la seguono, come ombre o parole ed intorno a questi corpi irrisolti i vivi si accapigliano, discutono, si tormentano per sapere o far tacere le loro grida silenziose.
La morte di Neruda grida ancora il suo mistero, anzi, con il tempo, essa sembra dare un significato più profondo a tutte le parole scritte in vita. Parole che ora ci sembrano un lungo, estenuante grido di gioia alla vita che i generali spensero con il golpe di Stato. Come era già successo al suo amico García Lorca, fucilato il 19 agosto del 36 a Viznar, come è successo ancora oggi in Turchia con la morte di Ibrahim Gokcek, il bassista del Group Yorum, che ha seguito Helin, la cantante del gruppo, morta un mese fa a causa dello sciopero della fame per protesta contro i divieti alla loro musica imposti dal presidente Erdogan. Di molti poeti intendiamo appieno il significato delle loro parole solo dopo la morte, quando esse svelano la loro anima segreta, come fa la perla dentro la conchiglia quando viene strappata dallo scoglio.
Neruda fu ucciso a causa della sua poesia, della militanza politica, del prestigio mondiale acquisito con il conferimento del premio Nobel nel 1971, a causa delle traduzioni delle sue poesie nel mondo. Il governo del Messico aveva messo a disposizione un aereo, che attendeva sulla pista dell’aeroporto di Santiago, per sottrarlo alle persecuzioni dei militari, dopo il golpe dell’11 settembre 73. Doveva partire per Città del Messico il lunedì mattina del 24 dello stesso mese, ma la sera prima, Neruda muore alle 22.30 causa di una improvvisa crisi che fa precipitare la situazione. Una crisi avvenuta dopo una misteriosa iniezione sulla pancia che lo stesso giornale El Mercurio, controllato dai militari, uscito il lunedì 24, afferma essere stata fatta per farlo dormire, mentre in realtà fu il colpo finale alla sua vita. I militari avevano capito che nel grande paese nordamericano egli sarebbe stato il punto di riferimento dell’opposizione internazionale al regime. Come già aveva fatto in Spagna contro Franco, quando nel 1939 mise su una nave il Winnipeg 2200 esuli spagnoli e li fece sbarcare in Cile per sottrarli alla violenza dei generali di Franco.
Un delitto pensato in tutta fretta ed eseguito con misteriosa rapidità – così scrive Roberto Ippolito – che però ha lasciato tracce evidenti, tali da far sorgere forti dubbi sulle spiegazione ufficiali. Spiegazioni desunte da una cartella clinica fatta sparire, che non chiarisce cosa successe nel pomeriggio di domenica 23 settembre nella camera 406 del Clinica di Santa Maria a Santiago del Cile, quando il poeta era solo perché la moglie Matilde era andata a Isla Negra a prendere libri, vestiti e manoscritti che voleva portare in Messico.
La notizia della morte di Neruda innesca una sorprendente vitalità popolare nell’angosciante clima che viveva Santiago nei giorni dopo il golpe. Il 25 settembre, ai funerali che partono dalla casa La Chascona (saccheggiata dai soldati) partecipa una folla di più di trecento persone, subito circondata dai militari con mitra spianati, che canta l’Internazionale e saluta il poeta con il pugno alzato. Non spararono i militari perché vi erano giornalisti della stampa internazionale, ma subito dopo la cerimonia alcuni dei partecipanti furono arrestati e torturati. Questa fu la prima manifestazione pubblica contro il regime che cadrà molti anni dopo, 11 marzo 1990, quando Pinochet fu cacciato via da un referendum popolare.
La morte di Neruda produrrà negli anni successivi mille manifestazioni in tutto il mondo, fra queste voglio ricordare quella tenuta a Capri dal sindaco di Napoli Maurizio Valenzi nel settembre del ‘79, quando fu posta una lapide ancora visibile di fronte alla villa Cerio a Tragara che ospitò il poeta e Matilde, abitazione dove furono scritti Los verso del Capitán (1953). In quella occasione venne Matilde a ritrovare i luoghi del ricordo, fu salutata dal popolo napoletano con grande entusiasmo e credo che quella iniziativa sia stata l’atmosfera giusta nella quale maturò il film di Massimo Troisi, Il postino di Neruda (1994). A Capri in quei giorni trionfò la poesia e quella riunione aprì la strada alle numerose manifestazioni sulla “letteratura latinoamericana in esilio” che si fecero negli anni successivi. Una delle più importanti si tenne proprio l’anno dopo a Roma, in Campidoglio alla presenza del sindaco Luigi Petroselli.
La morte del poeta, dopo el entierro, continuò a strisciare nei cuori delle persone, a seminare dubbi e demolire certezze. Chi fece di nuovo richiamare l’attenzione del mondo sul “caso Neruda” fu il suo autista – al quale avevano ammazzato il fratello – Manuel Araya che in una intervista sul giornale El lider nel 2004 dichiarò che egli sapeva della misteriosa iniezione e nel pomeriggio del 23 fu mandato dai medici a cercare una medicina fuori dalla clinica, e appena in strada fu arrestato, torturato e non rivide più Neruda. Araya diede una seconda intervista a Vanity Fair edizione italiana nel 2009 ed una terza nel 2011: il clamore suscitato dalle rivelazioni portarono ad una prima autopsia l’8 aprile 2013, sgranando il lungo rosario dei referti e procedimenti giudiziari che durano fino ad oggi ed il libro puntigliosamente ricostruisce.
In questa lunga, dettagliata e frenetica inchiesta, Roberto Ippolito legge tutto quello che è stato scritto dai giornali, dagli amici, dai tribunali dopo il 23 settembre 1973 sulla morte del poeta e attraverso un minuzioso lavoro di intarsio illumina le frettolose bugie del verdetto ufficiale. Ma il libro non è solo una inchiesta giornalistica ben fatta su un omicidio di Stato, è il riconoscimento della statura morale di quell’uomo straordinario che nato nel 1904 a Temuco nelle selve dell’Araucaria riuscì a conquistare il mondo con la forza della sua poesia. È anche la constatazione di quel rapporto misterioso fra Neruda ed il suo popolo che non è mai morto e che ancora oggi vive nei numerosi film, libri, studi, articoli di giornali e perfino gite turistiche che si fanno nelle sue case oramai trasformate in musei.
Se egli terminò la poesia Ode al dizionario con questo verso “di terra sono e con parole io canto” bisogna dire che le parole sono in lingua spagnola ma il suo corpo è di terra cilena.