Cinema dal divano
Apologia del dolore
"La solitudine dei numeri primi" di Saverio Costanzo dal romanzo di Paolo Giordano è una parabola sul dolore e su come gestirlo. A patto di accettare le diversità che garantiscono "bellezza" a ciascuna persona
La solitudine dei numeri primi: un titolo evocativo che incastra infinite rette di pensieri e assiomi. Se chiudiamo gli occhi siamo quasi in grado di percepire una distanza che separa la nostra identità dalla realtà, una divergenza impossibile da calcolare che ci spaventa, ma allo stesso tempo ci conforta. Abituarsi al buio è semplice, allontanarlo no. Mattia e Alice, tormentati dai loro oblii, sono vicini e inesorabilmente distanti. I due, protagonisti della pellicola di Saverio Costanzo, fluttuano nella sordità dei drammi più coercitivi della psiche umana.
La solitudine dei numeri primi, tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Giordano (Mondadori, 2008) e disponibile online su Netflix, è stato presentato in concorso alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e distribuito nelle sale nel 2010. La storia si dirama attorno a due ragazzi torinesi, perseguitati dal loro passato lancinante e assordante. I continui flashback immergono il pubblico in un crepuscolo di incomunicabilità e smarrimenti, incorniciato da un costante tentativo di dipanare la tribolazione alla quale la mente dei personaggi è crocifissa. Il regista ricostruisce i loro ricordi sin dall’infanzia: un Mattia adulto (Luca Marinelli), tediato dal suo riflesso di bambino (Tommaso Neri) e da un orribile senso di colpa causato dal tragico smarrimento della sorella autistica (Giorgia Pizzo); un errore che dal suo io adolescente (Vittorio Lomartire) è inutilmente esorcizzato con l’autolesionismo. Alice, da bambina (Martina Albano) vittima di un padre che la vuole campionessa di sci e di un incidente irreparabile, da ragazza (Arianna Nastro) succube di un rapporto conflittuale con il cibo, e da donna (Alba Rohrwacher) frustrata e disillusa a causa di una vita che non le appartiene del tutto.
Alice e Mattia, innamorati dell’idea di salvarsi a vicenda, rincorrono per anni la speranza di uccidere il cumulo di dolore che si trascinano dietro, diventando carnefici di loro stessi.
La pellicola interiorizza e esteriorizza i percorsi sinuosi dell’animo dei protagonisti attraverso una scenografia che palesa a più riprese l’oscuro meccanismo dei traumi infantili. La pioggia e la nebbia, l’atmosfera cupa e le melodie tristi anticipano l’incapacità dei due di riuscire davvero a toccarsi. Le loro sofferenze, simili ma allo stesso tempo opposte, si intrecciano e si scontrano in una catasta di immagini geometriche; il corpo di lei consumato e distrutto dall’anoressia, l’immagine di lui, gonfio di malessere e segnato dai tagli: fotografie speculari, ma imprescindibilmente incompatibili. «Lei e Mattia erano uniti da un filo elastico e invisibile, sepolto sotto un mucchio di cose di poca importanza, un filo che poteva esistere soltanto fra due come loro: due che avevano riconosciuto la propria solitudine l’uno nell’altra», come ben chiarisce l’autore del romanzo.
I numeri primi sono di per sé perfetti, divisibili solo per 1 e per se stessi, solitari e sospettosi di chi li circonda. In fondo, forse, siamo tutti numeri primi; è necessario però voltarsi di poco per accogliere l’infinita bellezza degli altri numeri diversi da noi.