A proposito di "Frieda”
L’enigma di Frieda
Con le due guerre mondiali del Novecento sullo sfondo e il fallimento dell'imbroglio nazista in primo piano, Christophe Palomar racconta le avventure di un personaggio che incrocia continuamente Frieda, la moglie di D.H.Lawrence
È davvero singolare. L’editore ci informa, nel risvolto di copertina, che il romanzo parla della nobildonna Frieda von Richthofen, figlia di un alto ufficiale tedesco, cugina del Barone Rosso e “musa” di D.H. Lawrence, autore de L’amante di Lady Chatterley. La si incontra una sola volta, di lei si sanno poche cose e i rimandi alla sua forte personalità sono fatti dal conte Joachim von Tilly, erede di grandi acciaierie sparse nel nord della Germania. L’enigma viene spiegato (a chi sa leggere bene tra le righe) in una sorta di postfazione intitolata Lettera al padre. Un altro fatto curioso che riguarda questo bellissimo romanzo: è stato pubblicato due anni fa da un piccolo editore (Pendragon), ed è intitolato, direi ovviamente, Frieda. L’opera viene rilevata da un funzionario di Ponte alle Grazie (306 pg., 18 euro), che lo ripubblica riscuotendo un buon successo di vendite. L’autore, che si occupa anche di consulenza aziendale, si chiama Christophe Palomar, nato in Alsazia (Francia) e cresciuto a Tunisi, è figlio di un italiano e di una spagnola.
Von Tilly, il protagonista, narra di sé e della Germania. Parla con disgusto dei tedeschi, «il paese ubriaco come a una festa di paese» che acclama Hitler dall’inizio alla fine e applaude quando l’ex imbianchino austriaco dichiara guerra al mondo, inglobando una nazione dietro l’altra fino alla disfatta totale che fece seguito alla disfatta in Russia e all’intervento degli americani.
Von Tilly definisce la sua famiglia definendola «inospitale». Del padre dice che è affettivamente assente: «Padre e figlio s’incontrano oppure non s’incontrano, ecco tutto»: questo il suo amaro assioma. Vissuto tra «gli acidi silenzi familiari», fa amicizia con un coetaneo, ed è convinto (nei suoi primi anni di ragazzo) che «il fascino delle donne risiede nella loro falsità e che nella lotta fratricida che le oppone l’una all’altra l’uomo non è che un accessorio». Parole dure, prima di conoscere l’amore con una certa Irene (e altre). Passa molto tempo in Francia e a Capri (davanti al Vesuvio soggiornava, con figlio, la misteriosa Frieda, la donna che «faceva scricchiolare il muro dei divieti»). La incontra una seconda volta a Vienna, e scopre in lei «un odore materno e familiare». Tilly, quando sarà ormai lontanissimo dal vecchio continente, ricorderà il suo “sguardo smeraldo” e il letto dove «dormimmo, lei forte e dolce, e io miserabilmente sguarnito». Frieda è la moglie di Lawrence. Joachim, dopo ore e giorni «alla ricerca di un’introvabile sensazione di felicità», sale su un treno diretto in Germania, infiacchita dall’armistizio e socialmente sbandata.
Von Tilly viaggia molto. Poi torna ad Hannover, dopo essere stato a Vienna, città ancora spensierata e ricca. Lì era diventato ingegnere, e aveva scoperto, oltre la dolcezza delle donne, l’umiliazione inflitta agli ebrei. Tra Germania e Austria, si culla nell’indecisione. Il padre ha raggiunto gli ottant’anni: conosciuto come arrogante, Joachim lo scopre uguale a tutti i vecchi. Pochi mesi dopo muore e Joachim si trova a essere l’undicesimo conte von Tilly. Intanto la Germania gli appare come l’emanazione della Prussia, ma è uno scheletro economico. A Joachim i nuovi papaveri dell’hitlerismo gli fanno la corte. Lui si tiene distante, frequenta gli intellettuali, legge centinaia di libri, fa amicizia col pittore Egon Schiele (che morirà per la pandemia detta “la spagnola”). La Germania perde la guerra per la seconda volta, «il numero dei morti rendeva irrisorio il peso dei vivi». E Frieda? Trova il suo paradiso segreto in un ranch del Nuovo Messico, accanto al marito (D.H. Lawrence) che, accantonata la letteratura, «dipinge come un forsennato».
Von Tilly attraversa l’Atlantico e sbarca in Argentina. Osserva dalla nave «il dondolio dell’orizzonte» e sbarcando in un mattino color rosa comincia ad avere paura di uno spazio che subito gli appare così diverso dall’Europa. I tendini si contraggono, osserva «il ventre vuoto e nascosto delle donne» e quello dei bambini «pronti a tutto». Sbrigate le formalità alla dogana, si trova a seguire un uomo vestito di bianco che si aggira vicino all’Hotel de Imigrantes. Poi lo perde. Come ha perso la sua valigia con dentro soldi e un quadro di Schiele. La ritroverà molti giorni dopo. Ascolta litanie zigane, idiomi tutti diversi, fissa «gli sguardi sudici e teneri degli immigranti, labirinti nascosti e si disfano». La sua indeterminata nostalgia è mitigata dalla musica, intrisa essa stessa di nostalgia. Così è Buenos Aires. Scopre che l’Argentina è anche un progetto alimentare oltre che culturale: tallarines, chacoli, bagna cauda, frigga, bife, keppe, fainà e così via. Sosta spesso nel solito bar. Dove scopre che gli argentini prendono il tè per assomigliare agli inglesi e non per la bevanda in sé. Un tale, col quale scambia due parole, non lo aiuta di certo: «Somos el pais de la gran mierda, che!».
Dopo tre anni di spaesamento, finisce nell’ambiente degli esiliati. Li guarda come fossero esseri insabbiati. S’accorge che sono pigri, polemici orgogliosi: ma tutto questo alla fine gli piace. L’uomo von Tilly si sente solo e riflette: «Il matrimonio è indispensabile all’uomo che invecchia». Lui quarantaseienne, Maria ventitreenne, una ragazza che “ha carattere”. Ne vengono fuori il sentimento e la convivenza.
Con gli amici discute di scrittori, scopre che alcuni tifano per Roberto Artl e altri per Macedonio Fernàndez. Scopre per caso Franz Kafka, il narratore che ha attraversato «il più perfetto anonimato, il genere di vita che vi dà l’illusione che la vostra sia segnata dalla felicità, e via di seguito». Quando compie cinquant’anni ringrazia di non essere mai troppo felice: «Limitare le proprie ambizioni, prepararsi al peggio, ecco dei sani propositi». Questo pensiero precede le sue notti. Intanto giungono dall’Europa notizie belliche. L’Argentina si schiera, almeno formalmente, con Belino. Questo a von Tilly non piace perché pensa che l’Europa sia il continente della violenza. Guarda Maria che dorme seminuda e pensa che «l’amore tedesco è doloroso, fitto, distruttivo». Meno male che trae conforto dalla dolcezza di Maria, col suo modo di stare al mondo come un uccello senza destino. La donna rimane incinta, pare ancora più bella. Forse per questo Joachim riflette sulla sua famiglia di origine: «L’amore della mamma mi ha bruciato nel vivo, quello di papà mi aveva prosciugato». Ma ammette che il padre, a suo modo l’aveva amato.
Per una serie di complicazioni, Maria comincia a star male. Joachim si avvale della generosità di un ebreo ungherese, ma la situazione precipita. In ospedale «quando il cuore di Maria cessò di battere, tutto assunse l’aspetto dei ricordi sbiaditi perché la morte schiaccia tutto». Lui rimane solo. Frequenta la libreria e fa passare i mesi, identici e meticolosi come le giornate di Kafka. Sfoglia riviste e giornali europei, che «evocavano la crisi dell’etica, il crepuscolo delle idee, la decomposizione della civiltà, il declino dell’idea di uomo e via di seguito». Quando s’imbatte in un ritratto di Hitler ha l’intuizione del fallimento. Viene a sapere che al consolato tedesco serpeggia un forte disagio, talvolta un fastidio indescrivibile. Joachim avverte ribrezzo per quella «parentela vergognosa con l’uomo e il suo popolo, poiché l’uomo è la creazione del genio tedesco». Legge in un giornale che bisogna distinguere: ci sono i grandi tedeschi e i tedeschi traviati. «Questo il nocciolo della questione, quella passione tutta teutonica per gli estremi mentre la storia del mondo sta tutta nel mezzo, nel flusso continuo delle medie».
È solo in tutto quel fracasso cosmopolita. Apre un libro e legge: «Pascal, Hölderlin o Nietzsche sono morti nella solitudine, ma la loro solitudine era voluta, coltivata, nobilitata dal genio. Mentre la nostra invece è fatta di ferro, gas e di freddo. La solitudine è il lascito della modernità». La sera, prima do addormentarsi, riflette sulle donne che ha conosciuto, sull’idea di donna attraverso diverse donne. Pensa che l’ipotesi di felicità dipende, prima o poi, da una donna, o dall’idea di donna «nella mente degli uomini, devastati dal dubbio e dalla speranza assurda di godere senza limiti». Ricorda, fantastica e prende atto che l’ultimo libro rimasto tra le sue mani è Fuga senza fine.