Every beat of my life
Il filo tra le dita
Un libro nuovo di Roberto Mussapi che in tempi consueti sarebbe nato benedetto da voci che gli avrebbero dato corpo nei teatri. Dal tuffatore di Paestum a Otello al maestro del poeta, monologhi in versi che narrano avventure liricamente rinnovate. Come questa di Arianna…
È uno dei miei monologhi in versi del libro I nomi e le voci, appena uscito nello Specchio Mondadori in questi tempi complicatissimi per l’editoria, drammatici per il teatro. Questo monologo, uno dai più amati da me e non solo, fu letto con altri in una sua scelta da Laura Marinoni al Teatro Franco Parenti di Milano. La recita della Marinoni fu alla sua altezza, cioè splendida.
Era in programma, in questi mesi, una serata con questa mia Arianna e altri testi dal libro (tra cui Penelope, scritto per lei), della stessa Marinoni. La situazione del teatro cancella ora queste serate importanti per un libro in cui la voce è soggetto e protagonista. Certo nulla va dato per perso, ma si riparlerà di tutto dopo l’autunno, se va bene. Così come non ha avuto luogo la serata di Paolo Bessegato al Teatro Menotti di Milano, il 18 Aprile, intitolata Parole di Plinio dal vulcano in fiamme, come quella programmata esattamente un mese dopo a Teatrodue Parma. Scelta di monologhi e lettura di Walter Le Moli e dell’autore: binomio già collaudato con soddisfazione nel teatro di Parma, una delle realtà più importanti della scena italiana e non solo, a cui sono particolarmente legato.
Dalla poesia di questo libro, poesia teatrale, erano in programma molte serate analoghe, con attori, registi, e in teatri da me amati. Avrebbero scelto e letto per una serata Valerio Binasco, Valter Malosti (o lui o qualcuno di sua scelta, nel tetro da lui diretto), i Marcidos, altri attori in altri teatri e città. Una serata a Bologna con mia lettura e al piano Teo Ciavarella, compagno di avventure consimili, un avvenimento di poesia e luce a Venezia creato da Marco Nereo Rotelli, oltre alla mia lettura al Festival di Poesia di Genova diretto da Claudio Pozzani, forse l’unica delle manifestazioni che ha possibilità di svolgersi.
Un libro consiste nelle sue parole, ma questo sarebbe nato benedetto da voci, che sono la parte effimera e quindi più fuggente e miracolosa della parola.
Questo volume raccoglie un scelta dei miei monologhi in versi. Non pochi sono stati interpretati in scena (alcuni anche commissionati) da attori, tra cui Laura Marinoni, Massimo Popolizio, Paolo Bessegato, Giovanna Bozzolo (questi due inVoci dal buio, regia di Flavio Ambrosini, 1993), Ivana Monti, Isabel Russinova, Marina Giulia Cavalli, Viviana Nicodemo, Walter Le Moli, oltre che da me stesso. Ornella Vanoni, con recital da me realizzato dai monologhi di ambiente grecoromano, mitico, è tornata in scena come attrice con Femmina, fuoco, regia di Giancarlo Cauteruccio. Letto in più occasioni da Paola Pitagora, La Grotta Azzurra, protagonista Miriam Mesturino, con la regia di Nanni Garella, produzione Torino Spettacoli, ha debuttato nel 2002 al Festival Teatrale di Borgio Verezzi è stato replicato sulle scene italiane per i successivi tre anni, con le luci di Gigi Saccomandi.
Ora tutto questo è divenuto un libro. Una conversazione delle voci. Che inizia con quella di Arianna: non il Labirinto, ma quel filo che tiene ancora tra dito e dito, prima tessitrice del destino, come Orfeo fu il primo poeta.
Il filo di Arianna
Poi fu buio, un buio che ora conosco,
azzurro come il mare nel profondo
abisso dove l’ombra si addensa,
e notte e un vento che mi carezzava la pelle,
mi addormentai, tra le sue braccia
mentre la nave salpava verso Nasso.
Tutto sparì, nel sonno, Teseo,
la clava, l’ingresso nel buio, il Labirinto.
E solo tra le dita la percezione del filo
con lui all’altro capo, addormentato,
in contatto con me nella distanza
quando anche l’eco della sua voce era dissolta,
e il rimbombo dei passi e l’ingresso
nel buio che inghiottiva lentamente
e i pianti delle vittime e tutto
fuso nel sonno in desiderio di memoria
e nostalgia del tempo e del risveglio,
ma nulla, filo, soltanto filo tra le mie dita.
E come se il cullante moto ipnotico
del mare mi allontanasse per sempre
lo sentii scorrere tra dito e dito,
tendersi all’infinito finché sentii soltanto
il tatto dell’uno e dell’altro polpastrello,
e il filo era scomparso come trainato
da un pesce invulnerabile in un mare straniero.
La luce mi risvegliò che ero già sola,
deserta la riva, nessuna voce
turbava lo sciacquio della risacca.
La nave era lontana, volta a occidente,
inutile ogni grido si strozzò in un pianto
povero, senza lacrime e voce,
mentre la vela nera si allontanava per sempre.
Teseo mi abbandonava nel sonno,
facendo scivolare il filo dalle mie dita,
il filo che lo aveva guidato nel lungo viaggio
nel buio, dove la mente si perde,
e dove il centro si moltiplica come nei sogni
di chi beve con Dioniso e stordisce
l’anima stanca della veglia e del giorno.
E io che lo avevo salvato dal Labirinto
quando abbattuto il mostro si era perso
nel buio senza ritorno dei cunicoli,
io che lo avevo riportato dal buio alla luce
come fa ogni donna che ama un uomo,
sentii che mi rubava il filo mentre dormivo
come se fosse stato quello a salvarlo, e non l’amore.
L’amore è qui, tra dito e dito, è il vuoto
pensai, l’amore è l’eco
dei passi e del respiro tesi da un filo.
Ricordo Teseo che salpava da Atene,
le imprese precedenti, fin da bambino,
quando con noncuranza smosse la roccia
e prese la spada e i sandali di suo padre,
il segno della sua natura regale,
ricordo la fama delle sue imprese,
i malviventi sterminati con la clava,
Epidauro il Pelifete, a cui spaccò il cranio
liberando la terra da un predone,
e il malfattore che in seguito uccise,
Sini, detto il Pitiocampte, un assassino efferato,
o il feroce cinghiale che aveva fatto strage
degli inermi abitanti di Cromione.
L’ho conosciuto così, per la sua fama,
per il toro che uccise con un colpo di clava,
il toro che Ercole aveva portato da Creta
e vomitava fuoco bruciando gli umani
facendo strage nelle terre di Atene.
Io ero a Creta, alla corte di mio padre
quando vidi la nave che arrivava da Atene
come ogni anno con le vittime umane
offerte in sacrificio al Minotauro,
mio fratellastro nato da un tradimento
di mia madre che si congiunse con un toro,
generando un bambino con la testa taurina.
La città di Atene, tributaria di Creta,
inviava ogni anno sette ragazzi
e altrettante ragazze in sacrificio:
ricordo l’approdo con le vele nere,
la lenta processione al labirinto infernale,
il pianto delle femmine, lo sgomento muto dei maschi
e il buio che li inghiottiva a poco a poco,
e nella notte le urla cupe e lontane
del Minotauro che li divorava
risuonavano echeggiando dal fondo del suolo
come incubi sepolti da millenni lontani.
Quando lo vidi tra loro, armato di clava,
capii che non andava disposto al sacrificio,
ma a una guerra, per liberare Atene
dal tributo imposto da mio padre.
Mi innamorai di lui, contro il sangue dei miei,
ma non contro natura se natura è l’amore.
Per essergli accanto gli diedi un filo.
E ne sentivo le vibrazioni nel buio,
i passi, la paura, nel filo teso batteva il mio cuore,
dal filo che passava l’amore dalle mie mani
e il mondo della luce che gli trasmettevo
e con la luce la memoria e il valore,
gli ricordavo il suo onore e l’impresa,
il mondo dei vivi dove splendeva il sole,
dove le azioni sono celebrate.
Gli ricordavo non chi ero ma chi era,
lui nato per le battaglie e le grandi azioni:
io ero solo Arianna, solo il filo
che lo legava alla luce dal buio:
anch’io vissi con lui nel labirinto oscuro,
gli fui accanto non col pensiero,
come dicono i maschi, ed è poco,
ma con me stessa, io nel suo pensiero.
Sono stata abbandonata da un semidio:
del dio aveva la crudeltà, dell’uomo la miopia,
come accade anche ai comuni mortali:
è raro che li muova il fuoco divino
e che dall’uomo emerga l’affetto umano.
Maledetta opinione razionale
che sancisce ciò che è contro o secondo natura:
violenta la natura il Minotauro,
un uomo con la testa di toro,
concepito da una donna che amava un animale,
e non è contro natura Teseo,
che non seppe riconoscere l’amore,
che usò il mio filo e lo spezzò come un fiore,
non è contro natura non capire,
non essere all’altezza dell’amore?
Che non fu un volo ma un percorso nel buio
i cui io percorrevo ogni passo e segreto,
da fuori, col pensiero di lui,
per immedesimazione.
Ho conosciuto il buio per amore,
per non lasciare solo Teseo e stargli vicino,
per essere con lui prima ancora
che per farlo tornare: perderci insieme
ai poli estremi del filo,
o emergere insieme nella luce.
Questo è il segreto della mia magia,
questa la mia conoscenza, per amore,
quello che lui scambiò per la magia di un filo.
Ho conosciuto per lui l’anfratto e il buio,
le ombre delle grotte, il labirinto,
e ne ho invisibilmente guidato l’uscita.
Per questa ragione non potevo morire,
come fece Didone, tornare al buio,
perdermi tra le ombre vaghe e addolorate.
E quando venne su quella riva il dio
del vento e dell’ebbrezza, il dio orientale,
proveniente dal luogo dove sorge la luce,
dall’oro dell’India, dall’aurora,
io lo accettai, non dissi no alla vita.
Ciò che vedete in me è una Fata Morgana,
un inganno dell’occhio per l’alone
che circonfonde le immagini e crea i sogni.
Mi fece dea Dioniso, per lui ascesi
all’incorporeo paese dei celesti e dei numi,
e tutto questo perché sapevo che il buio
non ha ritorno, non il nostro, almeno.
Ma ora che mi vedi tremare, ora che piango,
sappi, fratello, sappi, spettatore,
non tremo fisicamente, una stella non trema,
e io sono stella per dono di Dioniso.
È l’aria attorno a me che mi fa tremare,
per compassione del mio cuore umano
imprigionato in stella fissa e pieno
di nostalgia per la terra dei vivi:
la tua, fratello, con il tuo dolore,
e il labirinto, e la disperazione,
piango l’età felice della mia vita mortale,
i baci, il sudore, l’abbandono,
piango solo l’amore, piango quel vuoto
tra dito e dito, dove passava un filo.
Roberto Mussapi
(Da I nomi e le voci, Mondadori, Specchio, 2020, foto © michael azur)