Gli schiavi da "regolarizzare"
Fantasmi & Pomodori
Sembrava che il coronavirus ci avesse fatti tutti più buoni, e invece appena qualcuno parla di regolarizzare i migranti (che ci servono per fare lavori che noi non vogliamo fare), ecco che torna il "prima gli italiani". Cercavamo braccia, abbiamo trovato uomini, come diceva Max Frisch
«Un pomodoro, che sarà mai un pomodoro!». La signora davanti al banco della verdura è arrabbiata arrabbiatissima. Una santa indignazione trasuda come il fumo di una vaporiera dai lacci e laccetti della mascherina. Costa troppo, questa confezione, eppure va comprata, e «chissà quanto ci guadagnano…». Lo vorrebbe gratis, questa mia sconosciuta coetanea, il pomodoro per fare il sugo della pastasciutta. Ed è quasi gratis – davvero –una bottiglia di passata di pomodoro prezzata 90 centesimi: che filiera è, che prodotto è, che agricoltura è quella che si può permettere un prezzo con il quale si paga a malapena il vetro della confezione senza tappo?
«Un pomodoro, che sarà mai un pomodoro!». Torno a casa lungo le strade della bella campagna toscana. Nel campo alla mia destra che sale dolcemente verso la collina, lavora con zappe e sarchiatori un gruppo di giovani volenterosi: tutti “neri come il peccato”, direbbe mia nonna. Ma questa è certamente un’allucinazione: fermo la macchina, chiudo gli occhi, ed ecco che il campo mi appare vuoto di ogni presenza umana e il mondo torna al suo posto.
«Se sono invisibili – per carità – che restino invisibili!» Così il mio pomodoro si pianterà da solo, da solo maturerà sotto il sole, da solo attraverserà le strade sui camion, da solo si disporrà sugli scaffali del negozio a un prezzo conveniente. Parliamo dunque di fantasmi quando parliamo di immigrati che lavorano nelle nostre campagne. I numeri, come sempre succede nel nostro sventato Paese, sono opinabili: 600mila? certo, ma con le badanti. Allora 300mila? ma non erano 90mila? Le definizioni in compenso sono molteplici e suggeriscono sempre un reato: irregolari, clandestini, sommersi, braccianti in nero, ladri di lavoro.
«Avevamo bisogno di braccia, abbiamo importato uomini» commentava negli anni Sessanta lo scrittore svizzero Max Frisch rivolgendosi ai suoi connazionali scandalizzati per l’ondata di immigrati italiani nel loro ordinato Paese. «Come la Svizzera di allora – scrive Bianca Stancanelli nel suo libro La pacchia – anche la Calabria ha bisogno degli stranieri». Servono braccia e non discorsi per raccogliere le arance, le clementine, i mandarini. E queste braccia sono uomini che nei decenni hanno compiuto il loro duro apprendistato piegati sui campi del sud d’Italia. Prima furono i marocchini, poi i polacchi, poi i rumeni, i bulgari, gli ucraini. Ora gli africani, i neri: invisibili sempre, oggi più di ieri.
Non pronunciamo, per carità, il termine schiavi. Ma nell’Ottocento erano invisibili anche i neri che raccoglievano il cotone negli Stati americani del sud e morivano di fatica sulla terra, tanto invisibili che in blocco assumevano il nome del latifondista bianco, e con quel nome si presentarono come cittadini nel “nuovo mondo” libero dalla tratta degli schiavi ma non dal pregiudizio.
«Un pomodoro, cosa sarà mai un pomodoro!». La vulgata consolatoria nei tempi del coronavirus racconta che quando la pandemia sarà finalmente debellata – o tramontata – tutti noi saremo più buoni, pronti a disegnare un mondo nuovo e un pianeta più giusto. Ma vedete il pandemonio che si è creato quando al tavolo del governo qualcuno ha osato accennare alla messa in regola dei migranti che lavorano sulle nostre terre. La bandiera del “prima gli italiani” è tornata a sventolare nel castello di poppa dei sovranisti e in qualche segreteria di partito nei dintorni del governo la ferocia si è travestita da indecente piagnucolìo: «con tutto quello che succede in questi giorni, vogliamo proprio parlare dei migranti?».
Così non ne parleremo più, o ne parleremo male e poco. Del resto la questione è simile al famoso Comma 22: «Ci rubano il lavoro, ma questo lavoro noi non lo vogliamo fare, dunque noi li condanniamo a rubarci il lavoro». Ma davvero vogliamo andare a lavorare nei campi? Vediamo cosa succede in Gran Bretagna per l’effetto incrociato della Brexit e dell’isolamento da Coronavirus. «Se pensate che gli inglesi si mettano a raccogliere frutta e ortaggi al posto dei migranti stranieri, vi sbagliate di grosso», si sfoga un imprenditore in una intervista al Daily Mail. «Dei cinquanta volenterosi che si sono presentati per lavorare nei nostri campi, dopo pochi giorni ne sono rimasti solo sei o sette, gli altri se ne sono già andati. La situazione è così disperata che due settimane fa il governo britannico ha dovuto organizzare voli charter per far arrivare centinaia di lavoratori direttamente da Bucarest». E in Italia vogliamo davvero lavorare nei campi? Manderemo brigate di disoccupati nelle aziende agricole, o forse organizzeremo squadre di lavoro di tipo cubano formate da percettori del reddito di cittadinanza e guidate dai rispettivi navigators.
«Un pomodoro, che sarà mai un pomodoro!». Un secolo fa, ai tempi della mia beata adolescenza, era quasi un rito di passaggio andare a raccogliere i pomodori per qualche giorno dopo la fine dell’anno scolastico. Facevamo – credo – più danni che profitto, ma gli amici imprenditori ci accoglievano con sorridente comprensione. Guardate invece oggi l’offerta di lavoro di una coscienziosa azienda di Saluzzo: «Il candidato ideale si presenta con i seguenti requisiti: buona manualità e rapidità, predisposizione al lavoro fisico e all’aperto, disponibilità immediata e flessibilità oraria secondo le esigenza stagionali». Come spiega senza fronzoli un funzionario del sindacato nazionale degli agricoltori inglesi: «Questi lavori sono duri, ripetitivi, e bisogna faticare sotto qualsiasi condizione metereologica. Devi essere fisicamente e mentalmente pronto».
È meglio per tutti, dunque, che sui campi lavorino e si diano da fare i nuovi schiavi: ma in silenzio, e senza disturbare, e senza farsi vedere e dare scandalo. Torneremo a parlarne – vedremo – quando sarà passata la nottata del Coronavirus e tutti noi saremo più buoni.