Raoul Precht
Castelporziano/6

Le valigie di Evtušenko

«Al suo arrivo a Roma – vero atto di lesa maestà – Evtušenko s'era ritrovato senza valigie, e chissà se nel frattempo gli organizzatori erano riusciti a recuperarle, fra Mosca e Fiumicino, dovendo mediare fra due inefficienze, quella sovietica e quella democristiana»

Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente, mentre tutti attendevano l’arrivo provvidenziale di Patti Smith, il protagonista ha avuto modo di conoscere meglio un altro dei “suoi” poeti, Volker Von Törne.

* * *

In quel momento il più preoccupato della situazione mi sembrò Gerald, che pure a certe occasioni doveva essere abbastanza abituato, aveva girato tutta l’Europa partecipando a convegni, seminari e letture pubbliche, non so se quella volta temesse di essere anche lui crocefisso dagli spettatori esagitati, tanto più che le sue poesie non si prestavano troppo a essere lette in mezzo alla baraonda né ancor meno a essere spettacolarizzate, oppure se l’atmosfera generale gli avesse fatto perdere ogni velleità di trovarsi lì e sperasse solo di tornarsene a casa al più presto, fatto sta che fu e rimase taciturno per tutto il resto della manifestazione, mentre Johannes ed Erich, al pari di Volker, la sera prima si erano in qualche modo anche divertiti, anche se non lo avrebbero ammesso apertamente per non inimicarsi troppo i colleghi italiani finiti nel mirino della folla rumoreggiante, un po’ erano impensieriti anche loro, certo, ma nella loro preoccupazione si celava dell’ironia, era una forma di ansia piena di aspettative, in definitiva, perché quella sera, aggiunsero fiduciosi, le cose sarebbero dovute andare meglio per forza, a quanto si vociferava era stato raggiunto un faticoso compromesso grazie al quale i poeti dilettanti e spontanei si sarebbero potuti impadronire del palco ed esibire nel pomeriggio, grosso modo dalle quattro in poi, mentre la serata, dalle nove a mezzanotte, sarebbe stata appannaggio dei poeti invitati dall’organizzazione, come soluzione non era male, commentò Erich, qualunque cosa, del resto, sarebbe stato meglio della semplice repressione, e bisognava tener conto anche dei desideri del pubblico, se ci si trovava lì era per comunicare, altrimenti tanto valeva restarsene a casa propria a contemplarsi l’ombelico, mentre Gerald sembrava poco convinto e disse che i più facinorosi non si sarebbero mai accontentati, a chi poteva mai interessare leggere dei testi di pomeriggio su un palco abbandonato in mezzo al nulla, con la gente intenta a fare il bagno o altro, ma certo non a starli a sentire, in ogni caso, concluse Johannes ridendo, non possiamo far altro che recitare la nostra parte, tutti per uno, uno per tutti, e quel che sarà sarà, e se poi ci spernacchiano, e forse hanno pure ragione, ci terremo le pernacchie, ciascuno quelle che gli spettano, beninteso. Mi sembrava un ragionamento equilibrato, ragion per cui evitai di comunicare le mie prime impressioni, tutt’altro che incoraggianti, e cercai invece di rassicurare chi, come Gerald, sembrava averne bisogno, non preoccupatevi, dissi, nei confronti degli stranieri da noi scatta sempre una sorta di curiosità indulgente, non per niente siamo un territorio così facile da invadere culturalmente, tutto quello che viene da fuori, meglio ancora se da oltreoceano, si ammanta immediatamente di un’aura quasi magica, sarà provincialismo culturale, non so, o siamo solo consapevoli di non essere altro che una delle remote e sperdute periferie dell’impero, e forse questa consapevolezza ci viene dal fatto di esserne stati invece il centro, in un lontano passato, e quindi non stiamo lì a farci sconti e prenderci in giro, ci adeguiamo all’andazzo, lasciamo che la nostra lingua scompaia progressivamente e perda sempre più importanza nel panorama mondiale e accogliamo chiunque faccia lo sforzo di affacciarsi da queste parti, del resto non è raro il caso di stranieri che finiscono per rimanere e concimare questa terra anziché la loro, credo di aver fatto un discorsetto di questo genere, giusto per rassicurarli, ripeto, e del resto è così ancora oggi, qualunque sciocchezza venga dall’estero viene accolta se non sempre con entusiasmo, almeno con rispetto, mentre non si può certo dire la stessa cosa per la produzione culturale dei connazionali, ai quali si dà invece addosso per partito preso, anche se spesso a ragione, e se solo si riuscisse ad applicare uno stesso metro, di tolleranza o d’inflessibilità, a libera scelta, a tutti, ecumenicamente, saremmo già un passetto avanti. Questa seconda parte del discorso probabilmente gliela risparmiai, non li riguardava, ma sulla prima si sviluppò subito, mio malgrado, una discussione, tendente a stabilire se il pubblico tedesco dei lettori fosse diverso, in un certo senso avevano l’impressione che l’atteggiamento dei non addetti ai lavori dipendesse dalla percezione che si aveva in ciascun dato paese del lavoro culturale, e che da questo punto di vista il fatto che in Germania ci fosse stata una sempre maggiore professionalizzazione – con tutti i rischi che comporta, ad esempio in termini di distacco dalla realtà – rendeva quel tipo di contestazione più difficile, al massimo un autore poteva rimanere elitario o di relativo insuccesso, e in quel caso avrebbe avuto problemi maggiori a esercitare quella che per i tedeschi era una professione, avrebbe dovuto magari occuparsi anche d’altro anziché vivere unicamente dei proventi della scrittura, da “libero scrittore”, come si autodefinivano spesso nelle loro biografie, mentre questa in Italia era la regola, non c’era praticamente nessuno che potesse permettersi di sopravvivere grazie ai propri libri, ammesso che riuscisse a pubblicarne, e così si era al tempo stesso docenti, traduttori, quando non impiegati della pubblica amministrazione, camerieri o donne delle pulizie, ma mai scrittori sic et simpliciter, era il prodotto di una cultura che alla cultura non assegnava alcuno spazio certo, e gli operatori culturali, costretti a vivacchiare in quel modo, altro non facevano che perpetuare questa consuetudine, dandosi da fare per accumulare incarichi e posizioni, in alcuni casi per garantirsi appunto la mera sussistenza, e mettendo sempre più in secondo piano la ragione ultima per cui si erano scelti proprio quella vita, ovvero il piacere e la tortura dello scrivere, in questo stava, semplificando un po’ il discorso, la differenza fra i due paesi, ed era una differenza che aveva avuto modo, col passare del tempo, di creare un abisso, due mondi paralleli, tanto che perfino i premi e i riconoscimenti da una parte erano visti come tappe di una carriera letteraria in sé significativa e progredente, legata all’alea del successo, degli appoggi politici e della semplice fortuna, d’accordo, ma con una solida base propria, dall’altra come pura e semplice prova di appartenenza a questa o quella combriccola pseudoculturale o salottiera.

Non ricordo più con esattezza come trascorse il resto del pomeriggio, né quando decidemmo di spostarci sulla spiaggia dell’esibizione dove, anche se sempre periclitante, il palco resisteva, di certo ebbi però ancora il tempo di assumere qualche informazione spicciola, captandola a destra e a manca, aspetti accessori e di poco conto, futili curiosità, come il fatto che al suo arrivo a Roma – vero atto di lesa maestà – Evtušenko s’era ritrovato senza valigie, e chissà se nel frattempo gli organizzatori erano riusciti a recuperarle, fra Mosca e Fiumicino, dovendo mediare fra due inefficienze, quella sovietica e quella democristiana, che poi quei giovani e meno giovani fossero pagati o volontari cambiava poco al nocciolo della questione, il lavoro degli organizzatori in quei tre giorni non era davvero invidiabile. A mo’ di ulteriore riprova, abbandonato in un angolo dell’Enalc trovai in seguito un giornale tutto spiegazzato, il Tempo o il Messaggero, l’avevano lasciato aperto alla pagina su cui campeggiava un articolo sulla serata appena trascorsa, dove il giornalista sparava a zero su tutto il festival, prendendosela in particolare con l’assessore e gli organizzatori che nulla avevano fatto per circoscrivere la diffusione delle droghe leggere e pesanti, che secondo lui circolavano senza freno, né naturalmente contro la nudità e la sconcezza che del festival erano diventate la vera cifra, a pensarci bene doveva essere il codino Tempo, ma fra i due non c’è mai stata un’enorme differenza, mi dissi divertito che quella sera avrei verificato di persona e magari toccato con mano, espressione, una volta tanto, non necessariamente metaforica. Non voglio fingere infatti che non mi fossi reso conto dell’incredibile quantità di ragazze che gravitavano intorno all’hotel con imprecisate mansioni, per non parlare di quelle che giravano sulla spiaggia limitandosi a prendere il sole, ricoperte da costumi sempre più succinti e allusivi (allusivi cioè all’esistenza, in tempi ormai passati, del costume stesso o della sua idea), e non voglio neanche fingere che qualche pensiero impuro non mi avesse attraversato la mente già quando avevo accettato da Gustavo l’incarico di seguire i poeti tedeschi, e quindi con tutto il rispetto per i miei quattro nuovi amici e protetti, una volta terminate le letture avevo in programma di passare la notte in spiaggia e vivere un’avventura, quale che fosse e comunque andasse, questo spiega forse perché fossi così ansioso di raggiungere il palco e di conquistarmi quel posto nelle prime file che mi era stato assicurato per darmi modo d’impadronirmi facilmente del microfono quando avessi dovuto leggere le traduzioni, e io a quel posto tenevo enormemente anche perché mi avrebbe conferito l’importanza dell’addetto ai lavori, dell’insider, che è cosa ben diversa dall’essere un semplice spettatore, soprattutto agli occhi delle fanciulle cui avrei potuto interessare quella sera, è questa la semplicità e l’immediatezza con cui si ragiona a diciott’anni, senza riserve mentali e remore, d’altra parte mi sentivo in forma, avevo i miei adorati jeans e la camicia preferita, a quadri, uno straccetto che secondo me, il me dell’epoca, mi dava un’aria più vissuta e sbrigativa, come quando non ci si rade per un paio di giorni, e soprattutto avevo il mio pacchetto di Gitanes senza filtro, vero e proprio simbolo dell’avvenuto passaggio all’età adulta, alla maturità anche sessuale, uno che fumava quei cannoni non poteva non essere padrone della propria esistenza, mi davano sicurezza e le preferivo anche alle Gauloises, mi piaceva la scatolina piatta e la zingara danzatrice che vi era raffigurata, mentre le Gauloises erano molto meno raffinate nel loro semplice sacchetto blu che sembrava sempre scoppiare, davano un po’ troppo l’aria dello scaricatore di porto, e benché neanche questo in fondo mi dispiacesse mi pareva però che le Gitanes si adattassero meglio alle mie pretese d’intellettualità e fossero, soprattutto per una ragazza, più facili da accettare, in virtù appunto dell’eleganza della confezione, riflessioni contorte e tutte da dimostrare, lo riconosco, magari sarebbero state invece più colpite dall’apparenza rocciosa delle Gauloises che da quella specie di compromesso fra rudezza e ricercatezza che m’illudevo di aver trovato, ma in questi casi non c’è mai una controprova, purtroppo, una delle grandi tragedie della vita essendo il fatto che la si può vivere una volta sola, e quanto al resto è consentito solo fantasticare e perdersi dietro lontani miraggi o inventarsi, se si è abbastanza fantasiosi, uno o più universi paralleli, il cui andamento è formato da tutto l’intrico delle conseguenze di ogni azione che non abbiamo compiuto ma avremmo potuto compiere, o delle occasioni che avremmo potuto cogliere quando invece nella realtà abbiamo dolorosamente fallito, le abbiamo viste e ignorate o più spesso non ce ne siamo neanche accorti, nella nostra distrazione, nella fretta che accompagna la nostra esistenza, fretta di cosa poi, se non di avvicinarci all’appuntamento ultimo, quello che tutti abbiamo e a cui non si sfugge. Sia come sia, una volta installato nello spazio sul palco previsto per i poeti stranieri e i loro accompagnatori, me ne accesi subito una, delle mie Gitanes, e cominciai a guardarmi intorno con la curiosità di un bambino piccolo, anche perché per onestà intellettuale dovevo ammettere che nell’insieme l’articolista del Tempo non aveva dovuto nemmeno esagerare troppo, si vedeva davvero di tutto, a cominciare dai tanto esecrati nudi, nudi maschili femminili e infantili, non sempre gradevoli, per la verità, come spesso accade in questi casi a spogliarsi non sono propriamente quelli che più potrebbero permetterselo, e anche quando non era nuda e aveva conservato un qualche simulacro d’indumento la gente (quasi tutta) aveva pensato bene di abbigliarsi per l’occasione diciamo pure con grande creatività, per tacere dell’inesauribile libertà cromatica, e a tutto questo colore (in tutti i sensi del termine) si aggiungevano i giochi di luce prodotti dal tramonto prima e dall’accensione delle luci artificiali dopo, mentre dal punto di vista olfattivo ogni tanto venivamo raggiunti da zaffate di cui era difficile discernere gli ingredienti, persino quelli principali, eccezion fatta per le nuvolette di fumo (prodotte non solo da droghe leggere, a essere sinceri) che fluttuavano libere nell’aria, e anche l’udito era bersagliato da sollecitazioni di ogni tipo, il vociare e il berciare di quel fiume di gente, che fra l’altro si muoveva senza interruzione, avendo ridotto la risacca a mero rumore di sottofondo, pressoché inavvertibile.

Avevo con me una cartellina con i testi dattiloscritti che avrei dovuto leggere in italiano subito dopo il poeta che di volta in volta accompagnavo, il che mi dava un’aria ancor più seria e compassata, appunto da addetto ai lavori, ma anziché sentirmi parte di un meccanismo inflessibile, che avrebbe potuto stritolarmi, come se piano piano tutta l’energia distruttrice del mondo confluisse implacabile verso l’attimo della mia performance, sensazione che in futuro avrei provato spesso in circostanze analoghe, stringevo in mano la mia cartellina sereno, come se l’evento non fosse in fondo nulla di epocale, ma una manifestazione come un’altra, mentre avvertivo come tutti gli altri intorno a me fossero invece eccitatissimi, molti, soprattutto fra i più giovani, avrebbero dato qualsiasi cosa per comparire, per avere una sia pur piccola parte in quella recita collettiva, o forse a quel punto della serata la nube di fumo mi aveva già avvolto e aveva finito per calmarmi, rendendomi irragionevolmente rilassato, tanto che faticavo perfino a capire tutta quell’agitazione, ma del resto sono sempre stato un contemplativo, più incline a osservare che a partecipare, sempre un po’ in disparte, alla ricerca del miglior angolo d’osservazione. Volker intanto mi era scivolato silenziosamente accanto, avevo Gerald davanti a me e anche gli altri due non erano distanti, impegnati in una conversazione a quanto pareva decisiva per le sorti dell’umanità, o almeno della serata, cui partecipavano anche il cosiddetto presentatore e gli onnipresenti Ginsberg ed Evtušenko, più altra gente che non (ri)conoscevo, probabilmente si trattava di decidere dell’ordine d’apparizione e quindi dell’andamento della serata, se solo il pubblico stavolta avesse consentito di rispettare un minimo la scaletta, ma bisognava essere preparati a tutto, a qualunque variazione, in quel momento stavano prendendo in considerazione vari scenari alternativi, compreso lo slittamento di qualche poeta straniero alla terza serata, se necessario, intanto Gerald si era acceso una sigaretta anche lui, qualcosa di elegante e profumato, niente a che vedere con le mie mefitiche Gitanes, e Volker continuava con una specie di rictus a ravviarsi nervosamente i capelli, la riga non gli era venuta benissimo, quella mattina, ogni pochi minuti, con le dita, cercava di ridefinirla e ricalibrarla, ma senza troppo successo. Poi Johannes venne a sedersi anche lui, lasciando Erich solo a parlamentare a nome del popolo germanico, e disse che nessuno aveva un’idea precisa di quello che sarebbe successo, tutto dipendeva dall’atmosfera, però era importante mantenere la calma, dare anzitutto ancora per un po’ la parola ai giovani che volevano esprimersi, per gli invitati ci sarebbe stato tempo più avanti, una volta dimostrato che tutti avevano avuto la possibilità di leggere e farsi ascoltare, e infatti la serata cominciò con degli interventi spontanei ed estemporanei, nei quali ogni tanto il presentatore riusciva a infilare qualche poeta italiano più o meno conosciuto, tanto per ricordare, tra invettive contro il capitalismo, elogi dell’inarrestabile rivoluzione proletaria e apologie delle droghe leggere, che in fondo si era lì per ascoltare poesie, mentre le esibizioni venivano periodicamente interrotte con annunci sempre più prosaici, c’era chi aveva perso, o più probabilmente gli era stato rubato, lo zaino con tutte le sue cose dentro, sacco a pelo vivande e vestiti, chi protestava contro il prezzo del vino e della birra, di altri qualcuno aveva ritrovato le chiavi della macchina o un portafogli e ovviamente lasciava tali reperti sul palco (dove, altrimenti?), con la conseguenza che il palco, già lievemente ondeggiante, veniva sempre più occupato da curiosi, e intanto il tempo passava velocemente, era stato stabilito che alle nove di sera i dilettanti avrebbero finalmente ceduto il microfono ai cosiddetti professionisti, ma il microfono, purché acceso, era la divinità su cui si accentravano le bramosie di tutti, il vero e unico oggetto del desiderio delle masse, e apparve ben presto chiaro che sarebbe stato arduo sottrarlo a chi per ventura l’aveva conquistato, anche se di tanto in tanto, con mille espedienti, Cavallo, l’attore incaricato della presentazione generale, riusciva a farselo ridare e tentava di mettere un minimo d’ordine nel bailamme generale. A distanza di tanto tempo non sono più in grado di stabilire l’ordine nel quale si svolsero i fatti, ma in compenso ricordo il camice bianco con alamari neri di una Maraini rinunciataria, improvvisamente convinta che il pubblico in fondo avesse ragione e la poesia non servisse a nulla, e soprattutto ricordo che a un certo punto una forte contestazione investì un anziano poeta siciliano, Buttitta, reo di aver attaccato in una delle poesie lette non solo la mafia e la Democrazia Cristiana, il che era benaccetto, seppure considerato con indulgenza un po’ superato, ma anche le Brigate Rosse, non l’avesse mai fatto, scompiglio e baraonda, palco sempre più ondeggiante, servizio d’ordine – ammesso che di un vero e proprio servizio d’ordine si potesse parlare, in quelle condizioni – sopraffatto, fino a che i più esagitati nella folla non ripresero possesso del microfono per riequilibrare subito la situazione con la declamazione di slogan inneggianti alla rivoluzione permanente e al movimentismo, qualunque cosa fosse, mentre un altro momento clou lo si ebbe poco dopo con l’avvento sul palco di un altro personaggio disturbato e squalificatissimo, che dei movimenti spontanei era stato una specie di protagonista con il nomignolo di Cavallo Pazzo, ma che poi si era impadronito dei soldi di una colletta ed era sparito col bottino, ebbene, questa vera e propria vedette ebbe il coraggio o forse la follia di presentarsi sul palco per leggere anche lui qualcosa, e fu sottoposto a un pubblico e rumorosissimo processo, senza condanna e soprattutto senza pena alcuna, s’intende, perché tutto si risolse ancora una volta in un’enorme confusione, tra accuse, recriminazioni, piagnucolii d’autodifesa e insulti vari, confusione di cui il nostro poi approfittò, abilissimo, per scomparire, seguendo alla lettera l’esortazione di gran parte del pubblico che non ne poteva più.

Intanto si erano fatte le nove passate, era cioè scattata ed era stata ampiamente superata l’ora prevista per l’avvio della manifestazione ufficiale, manifestazione che si sarebbe protratta, come disse qualcuno per placare gli insoddisfatti, solo fino alle undici, dopodiché microfono e amplificazione sarebbero tornati a disposizione delle masse, in base al compromesso raggiunto che sembrava accettabile e accettato da tutti, anche se ci furono ancora contestazioni perché a quanto pareva nel pomeriggio l’impianto d’amplificazione non aveva funzionato a dovere o non aveva funzionato affatto e la gente si era sentita presa in giro, ma poi quelle ultime lamentele per così dire in extremis furono assorbite o semplicemente ignorate e si poté cominciare con il programma di cui Erich e Johannes avevano discusso accanitamente poco prima con i loro colleghi, e con mia sorpresa fu proprio Erich a essere chiamato per primo alla ribalta. Ero perplesso, non ce lo vedevo come vittima sacrificale, e infatti le cose non andarono così, per fortuna, ripensandoci in seguito mi dissi che era stata una scelta saggia, forse l’unica possibile, senza giocarsi subito una delle loro carte principali (i bardi statunitensi, ovviamente) gli organizzatori avevano mandato allo sbaraglio un personaggio che i più, pur senza capire il tedesco e quindi da una certa distanza, apprezzavano, uno di cui conoscevano le posizioni politiche decise, contro il neonazismo e direi soprattutto contro gli ex nazisti nascosti e riciclati nella Germania del dopoguerra, temi forti che avrebbero dovuto ripristinare una specie di unanimità soprattutto dopo il controverso intervento di Buttitta, insomma si trattava anzitutto di ricompattare il pubblico e isolare quanti erano venuti solo per seminare zizzania, e a questo giocarsi la carta Fried poteva contribuire. Erich mi prese per un braccio e bisbigliò che mi voleva accanto a sé durante la lettura, essendo venti centimetri più alto di lui gli avrei fatto da schermo contro i pomodori, poi ci ripensò e aggiunse che a dire il vero, scheletrico com’ero (e in effetti riguardando le foto dell’epoca mi sembra di vedere il cavaliere dalla triste figura), probabilmente i pomodori mi avrebbero attraversato e l’avrebbero colpito lo stesso, ma siccome ormai m’ero alzato e l’avevo seguito per così dire al centro del palco – per così dire, perché nella confusione che regnava un vero centro non esisteva –, mi si tenne accanto ugualmente, come un’improbabile guardia del corpo. Sapevo che avrebbe cominciato con dei versi “politici”, che avrebbe letto poi un componimento dedicato alla memoria di Ingeborg Bachmann e finito con un paio di poesie più intime, tratte dal suo ultimo libro, quello in cui aveva raccolto i versi amorosi, anche la scelta di quest’ordine essendogli stata dettata, immagino, dall’andamento della serata, ormai non si potevano più cambiare i testi rispetto a quanto era stato convenuto, nemmeno se lo si fosse ritenuto più adatto, sarebbe mancata la traduzione, e allora figurarsi gli strepiti della folla, tutto quello che si poteva fare era, appunto, attenersi alla selezione fatta e al massimo modificare l’ordine, la scaletta, cercando di captare sempre e comunque la benevolenza, come insegnano i trattati di retorica, ma non sarebbe stato facile, a freddo, avevamo la responsabilità di erigere una fragile barriera contro il pericolo del disastro incombente, ed Erich fu bravo, devo dire, controllato quanto bastava, non perse tempo con considerazioni e sproloqui, andò dritto al punto, sciorinando i suoi versi senza gigionerie. Alla fine di ogni poesia mi passava il microfono per la traduzione e io leggevo i versi italiani che avevo preparato cercando di dar loro la medesima enfasi, non a caso avevo cercato di mantenere, per quanto possibile, gli stessi giri di frase dell’originale, una cosa che mi stupì fu che la lettura dell’originale e quella della traduzione non sembravano dar luogo a reazioni diverse da parte del pubblico, mi spiego meglio, c’era un brusio di fondo che continuava imperterrito prima, durante e dopo la lettura, e a parte qualche timido applauso proveniente in gran parte dagli altri poeti seduti sul palco sembrava che la gente non stesse ascoltando affatto, che l’attenzione venisse carpita da ciascuno di noi, che disponevamo temporaneamente del microfono, per non più di qualche secondo, e solo perché il timbro della voce inopinatamente cambiava, e per un attimo coloro che erano in altre faccende affaccendati si riscuotevano, dicendosi toh, sta succedendo qualcosa!, e alzavano la testa per poi riabbassarla delusi non appena si rendevano conto che in realtà non stava succedendo niente di particolare, niente per cui valesse la pena d’allarmarsi, non ancora, almeno, e così andammo avanti con la nostra lettura senza incidenti e senza un particolare successo, senza infamia e senza lode, come si suol dire, ma avendo ormai rotto gli indugi e sfiancato gli irriducibili potemmo consegnare il microfono intatto al poeta successivo, un irlandese, mi pare, che prese a salmodiare qualcosa d’incomprensibile mentre noi riprendevamo posto. Incassai i complimenti degli altri tedeschi e un cenno di apprezzamento da parte della pelata di Ginsberg, che sedeva a pochi metri da me, sulla sinistra, e ogni tanto muoveva la testa a scatti, come perso dietro a un suo ritmo interiore, e allora un riflesso della luce faceva quasi credere che i suoi occhialini sorridessero, in seguito mi dissero invece che in quel momento, altro che sorridere, anche lui era estremamente teso e temeva per l’incolumità sua e della giacca che si stringeva contro le gambe, ma io ero a mia volta troppo contento di esserne uscito vivo da potermi accorgere delle paure altrui, mentre intanto Erich si era spostato sulla destra o vi era stato condotto dal prode Gustavo, spuntato improvvisamente da non so dove, e ne stava ricevendo pazientemente le felicitazioni, o almeno questa fu la mia impressione, visto che lo ascoltava con occhio assente. La serata andò avanti, come dicevo, con questo poeta irlandese, seguito mi pare da un altro italiano, forse Cucchi, senza che nessuno di loro riuscisse a perforare l’indifferenza generale, anzi sembrava già un successo riuscire a ultimare la lettura senza essere interrotti, spintonati o depredati del microfono, anche se poi qualche altro incidente di percorso ci fu, soprattutto quando qualcuno annunciò l’avvenuta cottura del famoso minestrone, famoso a posteriori, nel senso che sarebbe assurto alle patrie cronache grazie ai giornali dell’indomani, del resto la notizia di un minestrone cucinato in spiaggia in un’enorme pignatta e offerto a tutti a bordo palco era troppo gustosa (in tutti i sensi) per essere ignorata, sollecitava a un tempo curiosità e papille gustative, fatto sta che ci si misero in sei o sette a sollevare il pesante pentolone e a spostarlo verso il palco, mentre un altro esponente di questo gruppo o movimento improvvisato si faceva dare il microfono quasi a forza per annunciare e sottolineare la gratuità di quel pasto proletario, semplice e nutriente, al contrario delle poesie ascoltate fino a quel momento, che di proletario, semplice e nutriente non avevano evidentemente nulla, mentre il minestrone era pure ugualitario e assembleare, tanto che diventò in men che non si dica una specie di totem intorno al quale si sarebbero svolte danze propiziatorie, in senso neanche troppo metaforico, dal momento che decine di ragazzi si misero a ballare intorno al pentolone in una specie di frenesia da tarantolati, il che costrinse ovviamente a una nuova sospensione del festival in attesa di recuperare il microfono e un minimo di calma. Mentre la gente si accalcava e il minestrone veniva versato da qualche volontario nei recipienti più improbabili e infine distribuito, io ne approfittai per guardarmi intorno, convinto che il fatto stesso di essere lì in quel momento potesse in qualche modo rappresentare qualcosa di sensato, dare cioè un senso alla vita, all’esistere, così pensavo un po’ pomposamente all’epoca, o più probabilmente ero alla strenua ricerca di segni che verso un senso univoco e generale potessero almeno puntare, il caos che invece definisce e governa l’esistenza non essendo allora per me neanche intuibile, anche se lo sarebbe diventato, così come avviene per tutti, credo, nel giro di pochi anni appena, in omaggio alla maturazione che tutti ci divora.

Mi guardavo intorno, dicevo, senza sapere esattamente cosa stessi cercando, anche se poi dagli altri e negli altri non cerchiamo mai altro che conferme, conferme del nostro fascino o almeno conferme del nostro stesso esistere agli occhi del prossimo, quindi nella stragrande maggioranza dei casi erano ovviamente le numerose giovani donne, alcune delle quali davvero notevoli, che il mio sguardo intercettava nonché, curiosamente, le poche persone anziane, o che tali dovevano parermi dall’alto o dal basso della mia età, gente forse di appena cinquant’anni, l’età mia di oggi, che mi sembrava estranea e al tempo stesso così seduttiva, dotata com’era ai miei occhi e in confronto al me di allora di una singolare padronanza delle cose, dei gesti, del mondo, lo riscontravo anche nei poeti che accompagnavo, il barbuto con gli occhiali seduto proprio accanto a me – se non ricordo male un russo – o quell’altro con i boccoli angelici alla sua destra – un irlandese, credo – o i miei assistiti, Gerald con l’eterna sigaretta in mano e una nube di fumo che anche in quel momento lo avvolgeva, per non parlare di Erich, di cui per un attimo chissà perché avevo pensato che non mi sarebbe dispiaciuto averlo come padre, proprio lui del quale erano semmai note le gesta da figlio, figlio amoroso che riesce a far scappare sua madre dalla Germania nazista, in quei giorni io lo vedevo singolarmente trasformato in padre, nel padre che in quei giorni non avevo, che da relativamente poco tempo ci aveva lasciati per andarsene prima a Torino e fare poi ritorno in Germania, dove infine si sarebbe ristabilito dopo un esodo di vent’anni, padre della cui fuga o ritorno alle origini mi sentivo in parte responsabile, per non dire colpevole, e del quale ogni tanto cercavo vanamente di raffigurarmi l’isolamento e la solitudine, quella di chi, dopo anni e anni di dissapori e tormenti con la moglie e con l’ambiente familiare, figli compresi, getta la spugna, è costretto a dare un taglio a tutto, alla famiglia e ai figli adolescenti come a tutto ciò che fino al giorno prima ha costituito, nel bene e nel male, la sua vita, padre della cui infelicità io sapevo bene per averlo visto un pomeriggio, al ritorno da una giornata di lavoro, parcheggiare la macchina, spegnere il motore e restare seduto lì, al posto di guida, immobile per oltre un quarto d’ora, a guardare il vuoto e chiedersi probabilmente se dovesse o meno salire in casa, senza sapersi decidere ad affrontare la sua dose quotidiana d’infelicità, e soprattutto senza minimamente rendersi conto del figlio che lo stava osservando con sgomento e furore, padre che non ho mai amato tanto quanto il giorno in cui, con sollievo di tutti, ha deciso di andarsene lontano, perché a quel punto non mi ci sarei più dovuto misurare, non avrei più dovuto provare l’umiliazione di scoprire quanto fosse facile superarlo e sentirmi migliore di lui, superiore per sensibilità cultura educazione, tutto quello che nella sua infanzia non aveva avuto e che a noi aveva cercato disperatamente di dare, pagando salato perché ci venisse trasmesso da chi poteva farlo, la scuola, l’università, il mondo per lui impenetrabile della cultura, la superiorità del giovane essendo inevitabile ma anche dolorosa, appunto, per entrambi, padre e figlio, e l’avevo amato ancora di più per non aver mai cercato di tornare indietro, di fingere un trasporto che non poteva più provare, una volta anestetizzata la coscienza nel lungo viaggio verso una nuova vita. Ma tornando a Erich voglio specificare che non aveva proprio nulla di classicamente paterno, era un combattente per il quale un figlio aggiunto come me sarebbe stato solo un fardello, quindi tutta questa speculazione avveniva solo nella mia testa rimuginante, e mi stavo servendo della sua figura come di una cartina di tornasole per illuminare attraverso di lui l’altra figura, quella di mio padre, così dissimile, così inattuale, e soprattutto così ignara dal punto di vista politico, mio padre che ce l’ha sempre avuta, come gran parte della sua generazione di bombardati, con gli ebrei causa della sconfitta finale, e che detesta la SPD, tanto che credo abbia finito per votare di volta in volta, in mancanza di meglio, per l’esecrato Kohl, anzi Birne, la pera, come lo chiamavano allora i giornali satirici sfruttandone la forma del cranio, e oggi per la pallida e vuota Merkel, sto quasi per dire che sfruttando il fatto che erano quasi coetanei studiavo ogni mossa di Erich per vederci mio padre o il contrario di mio padre, scoprire come appunto due persone della medesima generazione potessero essere tanto diverse, agli antipodi, Erich basso quanto mio padre è invece alto, tracagnotto quanto mio padre è magro e slanciato, con gli occhiali tondi da commendatore che mio padre, occhio di lince, non ha mai portato, essendo diventato tutt’al più un po’ presbite da poco, nell’ottavo decennio della sua vita, ma quanto al resto avendo avuto sempre una vista perfetta. Sennonché sbagliavo di grosso anche in questo accostamento del tutto arbitrario, perché tra Erich e mio padre correvano ben undici anni e non si poteva parlare quindi della stessa generazione, per età e anche per caratteristiche fisiche mio padre era semmai molto più vicino a Volker – li separavano appena due anni –, ma ero certo che se si fosse trovato a parlare con Volker non si sarebbero capiti affatto, al limite con Erich avrebbe potuto esserci un minimo di (polemico) dialogo, ma con Volker e il suo attivismo non sarebbe scattata alcuna scintilla, due esperienze di vita destinate a non toccarsi mai come due parallele tese verso l’infinito, era forse per questo che come simulacro di padre Volker non l’avevo nemmeno preso in considerazione, lo sentivo troppo vicino a me, alle mie vane ubbie e fantasticherie, fra noi era per lo più un discorso alla pari, mentre di fronte a Erich, al traduttore di Shakespeare, al principale esponente della poesia politica in Germania, all’agitatore i cui testi solo due anni prima la CDU-CSU aveva tentato in tutti i modi di bandire dai libri di scuola e di mandare al rogo, e non solo nella nera Baviera, ma perfino nella civile e avanzata Brema, di fronte a un possibile, lontano modello, insomma, mi sentivo in soggezione, come un apprendista stregone al quale le scope e i secchi pieni d’acqua non si sono ancora ribellati, ma che certo non può millantare alcuna sapienza, alcuna abilità.

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