La psiche al tempo del coronavirus
Le vie della fragilità
L’isolamento domestico ci costringere a mettere in atto risorse personali inedite e non sempre accessibili. E a fare i conti con paure prima continuamente esorcizzate. Come quella della morte…
Una personale antipatia per la sociologia si trasforma in irritazione quando, attraverso la sua lente, si cerca di spiegare i comportamenti dei singoli. Di questi tempi, inevitabile è il riferimento alla domanda globale su come le persone reagiscono all’isolamento. Ci si potrebbe anche disinteressare dell’argomento, ma poi prevale la curiosità esplorativa che ci ha portato a essere quello che siamo, nel bene e nel male. Come capita che l’erba nel proverbiale fascio non sia tutta uguale, così gli individui si adattano, più o meno, alle richieste di stare a casa seguendo stili condizionati dalla loro personalità e dalle circostanze esterne. L’esperienza del non lavorare può essere drammatica per il mancato guadagno, mentre per alcuni, con stipendi assicurati, l’ozio diventa benefico. La convivenza può far esplodere tensioni sopite che rimarrebbero tali durante ritmi di vita più scanditi, mentre c’è chi ne approfitta per cercare soluzioni alle crisi di coppia. I drogati del jogging non vi rinunciano e li vedi correre sui terrazzi o attorno ai loro isolati magari seguiti da cani, loro o prestati, invece, i professionisti dell’isolamento non sentono la differenza con il tran tran quotidiano. Alcuni giovani che passano abituali lunghe ore in casa sugli smartphone o al computer, improvvisamente sentono la voglia trasgressiva di una passeggiata all’aperto; per altri il divano continua a essere un nido sicuro.
Il genere umano non si è trovato mai in una condizione di allarme globalizzato come quella attuale. Va bene, c’è stata la peste nera (dalle pulci dei topi) che dal 1347 al 1350 ha devastato l’Europa uccidendo un abitante su tre, ma non riguardava il resto del mondo. Neanche nelle guerre mondiali è capitato che tutto il pianeta fosse coinvolto nello stesso momento in uno stato di emergenza. Per ora, l’unica arma possibile in questa guerra pare sia il distanziamento sociale, una prescrizione del tutto nuova che dai tempi di Aristotele si oppone all’idea dell’uomo (termine omnicomprensivo) come animale sociale. Non si può nascondere però il retaggio evoluzionistico che fin dalla preistoria più lontana vede nel gruppo un’unità più forte nei confronti di un nemico, seguendo i comportamenti di molte specie animali. Eppure, per gli animali-uomo la socialità potrebbe essere un concetto sopravvalutato, tanto che molti di noi si dicono piuttosto soddisfatti della loro condizione di solitarietà, benché più obbligata che scelta. Saranno anche misantropi ma trovano nei loro spazi tutto quanto può servire alla loro esistenza, soprattutto ampi interessi culturali che non necessitano della compagnia di altri. (Nell’immagine: particolare del “Trionfo della morte” di Peter Breughel il Vecchio, ndr).
Tra i solitari si trovano anche persone con malesseri psichiatrici, ma anche qui le differenze si sentono. C’è chi vede il confronto esterno come un argomento di sofferenza: temono il paragone con quelli sempre in movimento frenetico oppure si sentono in colpa per non soddisfare le aspettative degli altri o le proprie rispetto a una condizione di benessere. Ma in queste settimane di confinamento non sono loro a subirne di più le conseguenze psicologiche. “Dottore, a me non pesa stare a casa, anzi adesso ci rimango anche più volentieri sapendo che non posso andare in giro”, dicono. C’è invece qualcuno in preda a deliri o allucinazioni che vede minacce provenire dall’esterno e si rinchiude per scansarle. Altri percepiscono la pandemia come la dimostrazione delle loro idee di persecuzione e si chiudono ancora più in se stessi. Un’ampia nicchia se la scavano anche i complottisti, non ufficialmente annoverati in un gruppo di interesse psichiatrico, che vagheggiano di virus creati in laboratorio da potenze straniere, cinese o statunitense (magari trasmesso attraverso il nuovo 5G), per avere il controllo del pianeta (non si sono accorti che da tempo siamo tutti controllati). Tante persone ansiose non reggono alla claustrofobia casalinga mentre questo diventa il momento buono per gli agorafobici che hanno sempre avuto un rifiuto per i luoghi affollati. Panico totale per chi ha paura delle malattie, che però di fronte alla realtà potrebbe anche mettere da parte incubi e ossessioni.
Inizialmente, ci si illudeva che l’isolamento si sarebbe superato anche vedendosi in casa con parenti e amici per scoprire poi che si tratta di qualcosa di più complicato: autocertificazioni, polizia in strada e, soprattutto, la paura di un contagio. Non si può negare che molti la vivano come un’esperienza stressante con alterazione del sonno e dell’appetito (in più o in meno), ansia e instabilità. E poi la ‘infodemia’ non aiuta. La sovraesposizione a informazioni vere o false su quanto sta accadendo provoca paura ma una irresistibile attrazione, come un film horror. Quel dieci percento di morti fra i contagiati ci perseguita e ci attira allo stesso tempo, e il dato prevale su quello del novanta percento di sopravvissuti. Ci viene sbattuta di fronte la paura della morte che, esorcizzata continuamente nelle nostre esistenze quotidiane, entra dirompente nelle case con ogni mezzo: aperture dei telegiornali o prime pagine dei quotidiani online o cartacei. Fa emergere il senso dell’umana fragilità che disinneschiamo continuamente con un delirio di immortalità (“a me non capiterà mai”), ma che adesso non può essere nascosta sotto un tappeto.
Sembra necessario imparare a stare con se stessi, rendersi conto della propria fragilità. Già, ma esistono dei consigli? Riprendere in mano quegli hobby messi da parte, darsi da fare con le piccole riparazioni casalinghe, sperimentare nuove ricette in cucina, seguire un corso di acquerello su YouTube, affrontare quella pila di libri alimentata nei mesi e negli anni per quando si sarebbe avuto più tempo. Il momento è arrivato. E poi, scrivere un diario, aggiornare il blog, usare con giudizio i mezzi di comunicazione sociale, importanti in questo momento come non lo sono mai stati. E così c’è chi li sfrutta per bere insieme un bicchiere di vino su Skype o videochiamare amici e parenti, anche se un computer troppo vicino sembra far esplodere la faccia dei cybernauti. Capire le proprie emozioni e cercare di esprimerle perché di fronte a un trauma, rivederlo e riparlarne diventa un modo per depotenziarlo. Evitare di lamentarsi delle restrizioni e delle rinunce. Pensare anche ai molti di noi costretti in ambienti angusti e sovrappopolati, ai poveri vecchietti nelle case di riposo quotidianamente falcidiati dal virus. Ringraziare anche nel proprio intimo le migliaia di medici e infermieri che starebbero volentieri a casa e invece, volontari o meno, rimangono in prima linea ad affrontare la morte vera di altri e, troppo spesso, anche la propria.