Giuseppe Grattacaso
A proposito di “La luna è un osso secco”

Le parole e la grazia

La nuova raccolta di Federica Giordano conferma il talento e l'ispirazione di una poetessa che riesce “a sentire la grazia piccola e sconfinata” della natura e dell'umanità insieme. Ma senza retorica né compiacimento

Il mondo si muove seguendo un meccanismo preciso e nello stesso tempo imperfetto per noi che non possiamo fino in fondo assimilarlo, un ingranaggio costruito sulla base di un equilibrio che è attraente nella sua delicata precarietà e crudele nella sua inevitabile disciplina. Gli uomini, pur nella loro molteplicità, agiscono come un unico “animale deforme”, che vorrebbe essere determinante e capace di orientarsi e di orientare, ma che “fa confusione e che sporca e che si fustiga da solo”. Eppure nella natura, in questo gioco terribile di violenza e resistenza, di passione e di sconfitta, di rivoluzione e ristagno, “resta una pietà”, come quella che annuncia il verso dell’orso “dopo che ha macchiato di un sacrificio rosso / la santità del ghiaccio”.

La poesia di Federica Giordano, di cui si ha preziosa dimostrazione nel suo secondo libro di versi La luna è un osso secco (Marco Saya Edizioni), è insieme feroce e cortese nel metterci di fronte al compito che, in quanto uomini, saremmo tenuti ad assolvere: “Riesci a sentire la grazia piccola e sconfinata / di quel filo d’erba che vuole raggiungere la luce / e il bambino ignaro, che correndo, lo pesta?”. La prova durissima non è data solo dalla comprensione dei propri limiti e dalla consapevolezza della modesta possibilità che hanno le nostre azioni di incidere sugli aspetti più profondi della realtà, ma consiste ancor di più nella necessità di spingere lo sguardo più avanti, “oltre il binario spezzato e la paura di deragliare, / oltre la lenta lena delle grandi navi e il peso delle rotte”. La strada è segnata, la lentezza del nostro procedere anche, ma il dovere che dobbiamo avvertire, l’incarico a cui veniamo esortati in quanto uomini, è di riuscire a percepire la bellezza e la benedizione che si nascondono nella nostra fragilità di esseri viventi e nella brutalità con cui la nostra debolezza quotidianamente ci si manifesta.

La luna è un osso secco è una raccolta matura che non si concede a nessuna facile scappatoia intimistica o autoreferenziale, ma che anzi si fa notare proprio per il linguaggio forte e asciutto, per il rigore con cui mette il lettore di fronte all’inclemenza della realtà. Del resto la Giordano, napoletana, poco più che trentenne, pone ad epigrafe delle trentanove poesie che compongono la raccolta un’affermazione con cui sembra liquidare tutte le scorciatoie a cui l’anagrafe tenderebbe a condurla: “la vecchiaia non dovrebbe parlarmi già da ora” è, più che una dichiarazione di intenti, la confessione della colpa di essere evasa anzitempo dalla condotta mentale e dai parametri etici della propria generazione.

Il titolo della raccolta contiene già il senso del procedimento dialogico, un filo che unisce tra loro le poesie, tra l’immenso paesaggio cosmologico e il nostro breve orizzonte di uomini, tra gli astri che “bruciano da noi / sempre più lontani” e noi, che pure nella nostra casa siamo “i grandi assenti”, noi che “viviamo di lacerti e dei richiami / indecifrabili delle nostre cose”.

Tra il tanto che c’è oltre di noi, tra la sterminata distesa di corpi celesti e il nostro minuscolo mondo in effetti nessuna consolazione si rende manifesta, perché l’assenza non riguarda solo noi stessi, ma anche il dispositivo che ci governa: “su noi tutti aleggia un colosso / assente e osservatore”. O ancora: “Ben oltre te e me, / più lontana del nostro sangue, / sta alta come un faro, / la quiete della stella fissa”. Gli astri sono fermi a indicarci una possibile direzione, una strada che ci è però negato percorrere. La soluzione, se c’è, è lontana da noi, e noi del resto non siamo in grado di decifrare i segni che pure in qualche parte del cosmo ci sono per rendere immaginabile la nostra redenzione. Resta un lamento, la paura che ci assale con il suo “raglio universale”, il belato della capra nel quale Saba “sentiva querelarsi ogni altro male, / ogni altra vita”, che nei versi della Giordano diventa “il ghigno caprino del mondo”: “Questo verso per me è il tutto che vacilla. / Meccanico non ne risente il cosmo”.

Anche quando parla degli affetti più vicini, quelli familiari, Federica Giordano non li avverte mai in una dimensione solamente quotidiana, ma essi diventano il varco per permettere, attraverso un’ottica concentrata sul circostante, una visione diversa, ma nemmeno ora rassicurante, sul mondo. Anche in questo caso è come se la poetessa costringesse se stessa e il lettore a cambiare continuamente le lenti che ci permettono una visione nitida sul mondo, quelle che servono per la miopia si alternano alle altre invece che rendono possibile una visione da vicino (appunto in declino negli anni della vecchiaia).

Nemmeno è possibile arrivare a comprendere fino in fondo noi stessi. Ci conosciamo per quelli che siamo nel momento in cui stiamo vivendo, ma siamo anche altro, qualcosa di diverso che sfugge alla nostra comprensione, a volta siamo più passato che presente e quello che eravamo sosta vicinissimo e ci turba con la sua presenza: “Nessuno mi è più estranea di me stessa / se mi immagino sul mondo. / Solo il suono puro, la corda sfregata sull’arco, / mi fa sentire davvero radicata a questa terra”.

È forse in questo “suono puro” l’unica ipotesi di salvezza, nella parola che “si lima e si gratta / fino a che resta una e onesta / come imperturbata linea retta”. Nella parola onesta, che ancora una volta rimanda a Saba e alla sua poesia onesta, quello che a suo dire “resta da fare ai poeti”, quindi nella poesia, e ritorniamo alle parole della Giordano, che “perfora il tempo del singolo, / raggiungendo la pietà di molti”, è il luogo dove è possibile comunicare e comprendere. Ma ciò può avvenire solo se si assume come perimetro etico imprescindibile la disposizione all’esattezza. Ma l’esattezza è un punto d’approdo estremo, l’ancoraggio che forse mai potremo raggiungere: “La ricerca dell’esattezza è una rinuncia francescana / apparentemente troppo estrema, / immotivata per l’indulgenza che gli uomini hanno / per se stessi e per le loro malinconie. / Così si coltivano invece un rigore e una statura / che non ci apparterranno mai”.

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