Una storia napoletana
La foresta di penna nera
«“Ma quale primavera, Munaciè, questa sta così da quella notte”, continuò Nunzia abbassando il tono della voce, fino a bisbigliare, sul finire della frase. Munaciello si poggiò la matita ormai ridotta a mozzicone sull’orecchio peloso e continuò a battere le sue dita tozze e grassocce sulla calcolatrice»
“Oggi ti prendi nu’schiaffone”.
Nunzia non si fidava più di guardarla, sua figlia, mentre occhi scuri e sguardo perso nel vuoto girava e rigirava il cucchiaino mezzo arrugginito nel caffellatte. Una lenza di sole entrava pigra dalla finestra e illuminava di taglio lo zigomo di Tania.
“Non ti capisco più figlia mia, pare sempre che non tieni forze, manco avessi fatto chi sa cosa. Diglielo anche tu, Munaciè, che si deve riguardare”. Per un attimo gli occhi della ragazza si riaccesero, e si girarono in direzione di Munaciello: l’amico di una vita, il compagno di giochi di sempre, il papà che non aveva mai avuto.
La faccia di Tania si contorse in un sorriso appena accennato, dolce. Munaciello lo ricambiò inarcando un piccolo angolo della bocca deforme e ondeggiando il capo avanti e indietro le lanciò uno sguardo di comprensione e poi si rivolse a donna Nunzia. “Vedete che non sarà nulla di preoccupante, è la primavera che la fa stare così”. “Ma quale primavera, Munaciè, questa sta così da quella notte”, continuò Nunzia abbassando il tono della voce, fino a bisbigliare, sul finire della frase.
Munaciello si poggiò la matita ormai ridotta a mozzicone sull’orecchio peloso e continuò a battere le sue dita tozze e grassocce sulla calcolatrice. Mezza lingua di fuori in uno sforzo di concentrazione e il foglio unto si riempiva come per magia di numeri su numeri come provenissero dal cilindro di un mago. Anche Nunzia continuò le sue attività, accompagnata da uno spolverino rosso che andava infilando di qua e di là, a caccia di polvere negli angoli più remoti della casa.
Lei, invece, restò così.
“Esco a fare una passeggiata”, sentenziò di colpo. Era stanca, Tania, e non sapeva perché. Certo la scuola, lo studio, ma nulla che potesse giustificare una tale assenza di forze, una tale mancanza di vivacità dentro e fuori di sé. Anche le sue scarpette da ballo erano lì, poggiate in un angolo. Fece un sospiro lungo e dagli occhi le uscì una lacrima calda e lenta. La primavera stava arrivando davvero. Gli uccellini avevano già cambiato la gamma di note nel loro canto, il vento profumava di fiori e nella gente cominciava a rinascere la disponibilità al sorriso.
Chiuse per un attimo gli occhi e da un lato remoto della mente emerse il ricordo di una sagoma, poi quello di una voce, poi quello dei contorni neri dei palazzi del quartiere che stagliavano nel cielo notturno schiarito dalla luna. E poi una culla, tante culle, corse agitate e lunghe camminate in punta di piedi e pianti di mille bambini e poi alberi, alberi scuri e spaventosi. Da un sogno sbiadito o dalla realtà: da dove proveniva quel ricordo di cose fatte e ascoltate?
Munaciello era arrivato alla finestra di casa una mattina di molti anni prima. Nunzia era indaffarata a scrostare una pentola con una retina consunta. Tania, sul tappeto di gommapiuma a giocare con una trottola di legno dalle bande verdi e blu. Il silenzio indaffarato della casa fu squarciato dal grido di donna Nunzia. Al vetro aveva improvvisamente bussato quella mano tozza e minuscola, ma Nunzia non vide nessuno. Con la bocca spalancata si fece forza con le braccia e si issò sul lavello, tenendo le gambe sollevate dal pavimento. Guardando in basso, la prospettiva le offrì una testa calva, coperta da molte macchioline scure. “E tu chi si’?”, gridò terrorizzata la donna. “Non vi preoccupate donna Nu’”- gli rispose il minuscolo uomo,- in paese ho sentito parlare di voi e della vostra storia, e così sono venuto a trovarvi”. Gli occhi di Nunzia si appannarono di lacrime. Nelle mani Munaciello stringeva un cestino coperto da uno straccio azzurro. Sotto, si vedevano spuntare alcuni pezzi di pane e il coperchio di una conserva di fragole. Lo guardò dritto negli occhi ebeti ma buoni e non potè fare a meno di provare un’immediata e inedita sensazione di fiducia. Aveva bisogno di appoggiarsi a qualcuno e in quell’istante capì che si sarebbe appoggiata a Munaciello, da lì all’eternità. Gli apri togliendo la catenina dal chiavistello. Il rumore acido della porta accolse per la prima volta in casa l’uomo. “E questa, non sai farla girare?”. La bambina, gattoni, provava a tenere in equilibrio il cono di legno, invano. Munaciello avvolse lo spago sulla punta della trottola: lanciandola in avanti tirò il braccio all’indietro per creare una forza contraria. Tania fu rapita dal movimento vorticoso, come ipnotizzata. Il colore del legno, in velocità, diventò un’unica tinta insieme alle bande verdi e blu della vernice. D’improvviso, si alzò in piedi, ritta e immobile. Iniziò a ridere e battere le mani, festosa. Nunzia non pote’ credere ai suoi occhi: la sua bambina finalmente camminava. Munaciello, da quell’istante, vestì agli occhi di Nunzia i panni della benedizione di Dio.
Tania si sedette su una pietra bianca, a lato della fontana. Iniziò ad accarezzare la superficie dell’acqua appantanata con il palmo della mano. Poi, iniziò a battere dei colpetti schizzando appena appena un po’ d’acqua sul vestito, che presto si riempì di molte macchioline scure. Nelle increspature dell’acqua notò una comitiva di girini che sembrava in tilt. Il peso sul cuore le rendeva affannoso il respiro. Sapeva di essere buona, ma una forza oscura e maligna sembrava premerle sul petto. La mano di Munaciello le scosse una spalla. Tania sobbalzò. Nel riflesso dell’acqua, non l’aveva visto arrivare. “E’ pronto da mangiare, vieni?”. Da quella mattina in cui Munaciello era arrivato a casa, era stato un crescendo. Ogni giorno portava un po’ di spesa alle sue nuove amiche, spesso si intratteneva a giocare con Tania e la sua trottola, con l’arrivo dell’inverno iniziò a portare pezzi di legna per il camino e insegnò a Nunzia a giocare a scacchi, accompagnando le mosse a piccoli e frequenti sorsi di cognac. Per Nunzia la presenza in casa di Munaciello diventò un fatto normale, l’uomo era conosciuto in paese con quel nome perché ovunque passasse, sembrava portare gioia e fortuna. Quando Nunzia trovò un lavoretto in una fabbrica di tessuti poco fuori dal villaggio, le sembrò naturale arredare una stanzetta apposta per lui, affinché potesse fermarsi a dormire quando era troppo stanco e si sentisse a casa sua ogni volta che restava solo con Tania, prendendosene cura durante le ore di assenza della madre. Non c’era lavello che non sapesse riparare, non esistevano altezze troppo grandi, per lui cosi ridicolmente basso, quando si trattava di ritinteggiare pareti e schiacciare al muro grossi ragni intenti a tessere le loro tele. Appeso a una scala di due metri, sembrava uno scalatore in procinto di raggiungere la cima a furia di sudore e picconate. “Adesso arrivo Munaciè, voglio restare un altro po’ qui, vicino all’acqua”. Il nano si girò mostrando le scapole alate e a passo lento si allontanò verso la staccionata di casa. Dall’albero si staccò con potenza un alveare. Il ronzio continuo trascinò Tania in un improvviso vortice di sonnolenza. Quando si risvegliò, un cerchio alla testa e la bocca secca, Tania non era più dove ricordava di essersi addormentata. Tastò con le mani e sentì il morbido del fieno. Come era finita in quella stalla? Ormai aveva smesso di chiederselo. Negli ultimi mesi, fin da quella prima volta in cui era sparita di casa durante la notte ed era stata ritrovata sul ciglio del pozzo allo sfolgorare dell’alba, si era trovata nei più disparati posti: sul tetto, sul ciglio della mulattiera, in un deposito di carbone.
La mattina del pozzo Nunzia era così terrorizzata che Tania imparò ben presto a mentirle, quando non si risvegliava a casa. Una volta era uscita a raccogliere delle fragole, un’altra a fare una passeggiata, un’altra a ripetere la lezione di buon mattino all’aria aperta. Non voleva che sua madre si preoccupasse, con il risultato, però, di aver formato nella mente di Nunzia una serie di congetture: mia figlia è pazza, mia figlia non vuole più vivere con noi, mia figlia è l’amante di un uomo sposato. Si ripulì il vestito dalla paglia e come un automa iniziò a costeggiare una villetta poco distante da casa sua. Sentì il pianto di un bambino appena nato e la voce della mamma: “stai buono, stai buono, è stato solo un brutto sogno”. Tania si domandò se sognassero e soprattutto cosa, i neonati, quando si svegliavano così, di soprassalto, in una bomba di pianto.
Tania rientrò che il tavolo era già sparecchiato, le briciole ammucchiate nella paletta, sua madre e Munaciello intenti in una partita a scacchi. Lui sbocconcellando una mela, lei scura in volto. “Se non hai voglia di mangiare con noi vattene a dormire”, le gridò Nunzia in volto avvicinandosi oltremodo. E vedi di andarci, a dormire, che domani devi tornare a scuola. Dormire. Quanto mancava a Tania quella sensazione di lenzuola fresche e profumate che si adagiavano sul corpo. Quella convinzione infantile che sotto quell’armatura di lino nessun mostro potesse disturbare il suo rifugio dal mondo. Ora, mettersi a letto, le sembrava un atto innaturale, pesante, a tratti malefico. Sentiva il suo stesso respiro gonfiarsi affannoso tra le costole, le sentiva sollevarsi e abbassarsi come una fisarmonica dalla quale ben presto iniziavano a uscire suoni provenienti da un mantice inquieto.
E poi il caldo, il caldo che partendo dalla punta dei piedi le invadeva il corpo fino alla punta delle orecchie, che quasi prendevano fuoco tanto pulsavano. E subito dopo il gelo, e la sensazione di essere sveglia ma incapace di muoversi, fossilizzata sotto le lenzuola, pesante come marmo poggiato sul materasso. E poi cominciava il ronzio, il rumore di trottola, il rumore di alveare cascato giù da un albero. Ogni mattina le unghie dei piedi erano macchiate di sangue e giorno dopo giorno, intorno alle dita, si andavano formando dolorosi calli. Quella mattina, Tania trovò Nunzia in lacrime. “Perché avevi gettato questa nella spazzatura? – le disse mostrando tra le mani la piccola trottola della sua infanzia, sporca di residui di pomodoro e di verdure, – non lo sai che questo è l’ultimo regalo che ti aveva fatto il tuo papà?”. Tania cercò lo sguardo di Munaciello. Non lo incontrò, era poggiato su una ragnatela nascente nell’angolo della cucina. “Perché mi trascina in un mondo fatto di incubi che tu non puoi conoscere, e che io invece conosco da quando sono piccola. Sono stanca ma’, ora devo andare”.
Passarono molti inverni e molti ancora ne dovranno passare prima di scoprire da dove vengono gli incubi dei bambini. Quel che è certo, è che una mattina di questi inverni, Tania fu trovata morta di freddo accanto alla fontana. Aveva una scarpetta di danza mezza slacciata attaccata alla caviglia livida e il corpo era segnato da una stanchezza senza tempo, la pelle così tirata e pallida da poter intravedere tutto il suo sistema circolatorio. Nell’acqua appantanata, anche i girini erano morti. In paese, nessuno seppe mai cosa dire della vicenda. Munaciello era sparito dalla circolazione e Nunzia aveva riattaccato la catenina al chiavistello della porta e sbarrato la finestra della cucina. Qualche casa più in là, un bambino giocava ipnotizzato con una trottola. Attaccato alle pareti, un disegno: una ballerina in lacrime, con gli occhi chiusi e la braccia tese in avanti, e un nano che la trascinava in una foresta di penna nera. Ai loro piedi, una trottola a bande verdi e blu.