Alle Scuderie del Quirinale di Roma
La luce di Raffaello
La mostra appena aperta in occasione dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello è da non perdere assolutamente. Per cogliere il percorso umano e creativo di un grandissimo che riscoprì la luce nelle ombre della Roma corrotta del primo Cinquecento
Sarà il clima cupo e contagioso di quest’Italia minacciata e imprigionata dal timore dell’epidemia, che imprime, come un velo, dazio allo sguardo: all’anteprima per la stampa una signora sviene per un malore e per oltre un’ora il primo piano delle Scuderie del Quirinale viene evacuato e sbarrato al pubblico; nei prossimi giorni l’afflusso dei visitatori verrà scaglionato e filtrato, obbligo di distanza di almeno un metro.
Sarà anche l’ordine cronologico ribaltato (Roma 1520-Urbino 1483), scelto dai curatori e degli allestitori di questa megamostra, in scena fino al 2 giugno, che impone un percorso e una rievocazione a ritroso a partire dal 1520, l’anno della morte di Raffaello di cui si celebra il mezzo millennio. Un cambio di rotta inusuale, ma ben calibrato che ci obbliga a misurare come un travagliato tragitto di esperienza e di crescita, un trapasso da un sogno ad un incubo, la distanza che separa le opere giovanili da quelle mature, attenuando quell’alone di malinconica, appagata, indistinta perfezione che la platea di massa è abituata ad associare alla sua figura.
Sarà proprio lo spettro incombente, le risonanze emotive di questa morte imprecisata e precoce che interrompe la carriera dell’artista ad appena 37 anni, a consegnarlo alle approssimazioni enfatiche del mito e alla bassezze del pettegolezzo. Tra le immagini ufficiali selezionate a documentare le tante altre che per secoli continueranno ad esaltare il dolore e la costernazione della corte vaticana, che sfila davanti al suo cadavere irrigidito su un letto disfatto, spicca una maliziosa stampa coeva che trasforma la scena di quel congedo funebre in un vorticoso turbinio di muse, che danzano nude per rendergli l’ultimo omaggio, dando fiato alla voce, registrata da Giorgio Vasari, il suo biografo più prestigioso, che Raffaello sia stato stroncato da una notte di prolungati eccessi erotici, o al sospetto, più credibile, di una degenerazione fulminante di qualche malattia venerea, allora incurabile.
Sarà infine l’emergere di un dubbio che mette inesorabilmente in moto l’immaginazione: chissà come il talento creativo di Raffaello, così ricettivo al mutar dell’ambiente avrebbe attraversato gli anni bui successivi, segnati dal dilagare dello scisma luterano e dagli orrori del Sacco di Roma del 1527, che avrebbero sancito il tramonto del Rinascimento? Chissà che nuove forme, che nuovi artifici pittorici avrebbe preso in prestito e rielaborato per tenere il passo e dare forme, e colori a quelle tenebre?
Insomma, l’insieme di tutti questi fattori concorre a spingerci a raccontare questa labirintica mostra romana da record, la più grande mai dedicata a Raffaello, più di cento quadri e oltre duecento opere, tra stampe, disegni e documenti d’epoca provenienti da musei di mezzo mondo, seguendo il filo conduttore, emotivo e concettuale, dell’ombra che invade progressivamente la vita e il processo espressivo di questo geniale maestro. Del resto non è proprio Raffaello a suggerirci con forza questo tragitto, con quei due autoritratti scaglionati in sale diverse?
Il primo e il più noto, è del 1506, quando Raffaello, superati da poco i venti anni, lasciata l’Umbria, culla della sua formazione professionale a contatto con due maestri come Perugino e Pinturicchio, si trasferisce e soggiorna a Firenze. Un volto ancora imberbe di un pallido chiarore leonardesco contro uno sfondo di un bruno chiaroscurato, lunghe chiome ramate che sbucano da un cappuccio di feltro, gli occhi malinconici che ci fissano di traverso, labbra increspate in un sorriso ancora più triste: l’inquietudine di un orfano, che ha perso la madre ad appena 8 anni e il padre, pittore e scrittore di relativo talento ma grande reputazione alla corte di Urbino, quando ne aveva appena 12, eppure dietro quella maschera docile e disponibile con cui conquista simpatie e consensi, nasconde volontà e ambizioni smisurate.
Ed ecco il secondo autoritratto, che arriva in prestito dal Louvre. È datato 1518, a Roma Raffaello è ormai una celebrità, un successo sigillato dal favore di due Papi. Il suo volto, ora incorniciato da una barba scura da Cristo, sbuca in secondo piano da uno sfondo teatrale di tenebra solcato da fasci di luce trasversale, preceduto dal busto di un amico, di cui gli esperti stentano a stabilire l’identità. La faccia e il corpo si sono appesantiti, lo sguardo è sempre velato di tristezza ma, meno compiacente, trasuda consapevolezza e profondità, rivendica l’autorevolezza che si è conquistata sul campo. La sua pittura ha cambiato registri: si avverte che Raffaello sta rimodellando echi del tonalismo dei grandi maestri veneti. Ma è l’uomo che appare profondamente cambiato, sa di far parte della tenebra che lo avvolge, quella Roma di glorie e bassezze, intrighi e licenze in cui vive. Da protagonista ma in seconda fila, come prescrive il cerimoniale di quella monarchia assoluta, cui si è giocoforza adattato.
Ecco, in questo confessato mutar di apparenze e di ruoli, la chiave per rileggere una delle vicende più intriganti, sulle quali la mostra si dilunga nel corposo siparietto centrale. È la storia di quella che oggi battezzeremo come una fake-news. Una fama distorta dalla vista acritica del mito che incorona Raffaello come antesignano di quella battaglia per la salvezza del patrimonio artistico del passato che avrebbe portato alla nascita del nostro ministero dei beni culturali e a uno degli articoli più illuminati della costituzione italiana. La racconta in modo mirabile Salvatore Settis in un fascicoletto fuori catalogo distribuito all’ingresso.
Tutto nasce da un manoscritto datato 1519, e qui in mostra esposto sottoteca, riaffiorato molti anni dopo in diverse trascrizioni e attribuito proprio a Raffaello. È un appello rivolto a papa Leone X, il pontefice di Casa Medici rappresentato in mostra da un bellissino ritratto arrivato tra molte ingiuste polemiche dagli Uffizi. Un messaggio in tre parti che inizia con un accorata denuncia degli scempi e delle distruzioni dei resti dell’antica Roma compiute sotto il regno di altri pontefici. Prosegue con un invito a sospendere gli scempi, che prende forza citandola dalla decisione del papa di assegnare a Raffaello l’incarico di vigilare sui cimeli antichi e di effettuare rilievi e mappature sui monumenti affioranti e nascosti per ricostruirne l’aspetto. E qui il testo rivela i primi fraintendimenti della realtà, perché la “Breve” di Leone X cui si riferisce non prevedeva nessuna azione di diretta tutela, ma solo il compito aggiuntivo assegnato a Raffaello quale soprintendente ai lavori della basilica di San Pietro, di vagliare i marmi antichi da reimpiego ed escludere dalla distruzione lapidi e incisioni utili ad approfondire la conoscenza della lingua latina. Un equivoco che si trascina nella terza e ultima parte arrivata incompleta, dove il testo elencava come modelli per il futuro i metodi usati da Raffaello per le sue mappature.
La verità è che la lettera non è mai arrivata nelle mani del papa. Si tratta di una bozza incompiuta a due mani, in una serie di incontri tra Raffaello e il suo amico Baldassare Castiglione, il grande umanista (in mostra c’è anche il suo ritratto, un capolavoro) autore del “Cortigiano”, uno dei testi fondanti del Rinascimento: le idee e le esperienze sul campo vengono da Raffaello, ma la stesura e gli emendamenti sono del Castiglione.
Inconcepibile rivolgersi ad un pontefice, anche se illuminato, con quei toni: nessuno nella corte Vaticana poteva dialogare così da pari a pari, consigli e suggerimenti dovevano restare in una zona defilata che non oscurasse la sua figura di sovrano assoluto. Ciò non toglie a Raffaello il merito di aver tracciato una strada che secoli dopo avrebbero percorso Canova e i suoi successori, prima e dopo il crollo del potere temporale dello Stato Pontificio.
L’ombra è la terra di mezzo in cui nella maturità Raffaello si confina da esploratore di nuove forme, inventore e traghettatore di nuovi canoni come quello delle grottesche, di cui contribuisce alla riscoperta calandosi con i suoi allievi nelle tenebre della Domus Aurea, e poi alla loro traduzione come liet motiv decorativo delle sue architetture più audaci che per secoli faranno scuola. Ma anche il modo di avvicinarsi da pittore agli incubi che minacciano l’orizzonte del suo tempo e le sue stesse aspirazioni di convinto fedele e intellettuale pacifista.
Eppure che grandezza Raffaello ha raggiunto abitando e dominando anche il regno della luce e del sogno. Come in quel piccolo quadro, un capolavoro assoluto che arriva in prestito da Londra, ed è forse il più bel regalo di questa mostra. Datato 1504 era parte di un dittico che includeva anche le Tre Grazie. Un lavoro su commissione, dedicato a un giovane nobile romano, probabilmente un rampollo della famiglia Borghese. La rappresentazione di un sogno per l’appunto: Il sogno del cavaliere. Il ritratto di un giovane militare dormiente vegliato da due figure femminili: la Virtù e la Grazia. Una complessa allegoria neoplatonica risolta da un impianto ridotto all’osso e da un miracolo di colori di straordinaria limpidezza.
Un inno di sapore ariostesco alla leggerezza e una prova di eccezionale maestria camuffata da una altrettanto eccezionale semplicità. Una vena di pura poesia, dischiusa dalla sua istintiva sintonia con il sacro e profano mistero del corpo e della Bellezza, che resterà impronta inconfondibile dello stile di Raffaello anche negli anni in cui il suo approccio con le contraddizioni e i conflitti del mondo si farà più tormentato e complesso.