La prima parte di una storia di cantiere
Il primo invaso
«S’alzò dalla scrivania, andò al fornelletto piazzato su uno scaffale dell’archivio e mise su la moca. Linaldo si lasciò cadere sul divano davanti al tavolino basso. Pareva stanco. Pareva scoraggiato. Fu lui a rompere il silenzio»
Quando Linaldo vide la piccola sorgente d’acqua ai piedi del rilevato, capì d’essere nei guai. Fermò il pick-up sulla piattaforma e fissò la polla. Più in là di così il fuoristrada proprio non poteva andare, l’ultimo tratto di pista era già un pantano, gli pneumatici slittavano nel fango. Scese e avanzò a piedi, tastando il terreno viscido prima di appoggiare il peso. Gli stivali affondavano fino a un palmo sopra la caviglia.
Chiamò per radio Gavazzi e gli ordinò di piazzare altre pompe. Anche se non era certo a forza di pompe che avrebbero potuto fermarla. Duran, il capo moviter, lo raggiunse sotto il cofferdam.
“Hai paura che eroda l’unghia?” Disse.
“Lo sta già facendo,” disse Linaldo. “Esce da sotto. Via via che l’invaso cresce, spingerà di più.”
Duran s’avvicinò a sua volta alla polla. Sentì il risucchio della corrente sotto la suola degli stivali, ma riuscì a raggiungere l’acqua sorgiva e ne raccolse un campione in una bottiglia di plastica. Non era torbida.
“Se sale oltre la berma, ci fermiamo,” disse Linaldo. “Vado a dirlo a Furio.”
“Porto qui le macchine,” disse Duran. “Rinforziamo l’unghia.”
Si fermò alla stazione dell’asta limnimetrica, lungo la strada, e annotò l’ultima lettura. Quota milleventicinque, cinquanta metri di battente. E quella risorgenza, al piede di valle, che spingeva. Entrò nell’ufficio di Furio senza bussare. Non c’era altro da fare che avvisare il Cliente e questo spettava a lui. Anche se già sapevano, entrambi, come avrebbe reagito. Si divisero i compiti. A calmare il Cliente ci avrebbe pensato Furio. Linaldo tornasse fuori a occuparsi del cofferdam.
“Continuiamo a chiamarlo cofferdam, ma è una diga,” disse Furio.
“Vorrei vedere. Cinquanta metri di battente,” disse Linaldo.
Quando fu di nuovo ai piedi del cofferdam, vide che Duran aveva portato le macchine: due escavatori sistemavano il rip-rap e i dumper, in fila indiana, scaricavano roccia. Massi grezzi da due-tre tonnellate. Ma Gavazzi non aveva ancora piazzato le pompe. Lo richiamò per radio. Glielo ripeté una volta sola. Dal tono di voce, stavolta Gavazzi capì. Voleva lì le pompe entro mezz’ora.
* * *
Alle undici passò in magazzino. Ne aveva bisogno. Aveva bisogno che Esther gli preparasse un caffè.
Lei non fu per niente sorpresa di vederlo e non ci fu bisogno che dicesse nulla quando entrò. S’alzò dalla scrivania, andò al fornelletto piazzato su uno scaffale dell’archivio e mise su la moca. Linaldo si lasciò cadere sul divano davanti al tavolino basso, nell’angolo dell’ufficio dove solitamente lo bevevano insieme. Pareva stanco. Pareva scoraggiato. Fu lui a rompere il silenzio.
“Abbiamo un guaio, giù al cofferdam,” disse.
“Sì. Ho sentito quei messaggi per radio,” disse Esther. Preparava il caffè, dandogli le spalle. La sua voce era piatta, senza intonazione. Nessuno strascico dell’ultimo litigio.
“Sì,” disse Linaldo. “Me l’aspettavo, sai? Già ieri avevo notato qualcosa. L’acqua cresce, a monte, ed ecco qua… Non so come faremo, a salire di altri trenta metri…”
“Già, ” disse Esther. Si voltò e portò la tazzina di caffè, sul vassoio, con la zuccheriera e tutto. Una sola tazzina.
Linaldo preferiva la moca. A Esther piaceva la Nespresso. C’era anche una Nespresso, sul mobile, accanto al fornelletto elettrico. Nei momenti buoni, quando lo prendevano insieme, Esther preparava due tipi di caffè. Funzionava nello stesso modo anche a casa. Nella cucina di casa – se l’alloggio prefabbricato di cantiere poteva chiamarsi casa; ma per Linaldo ed Esther da più o meno vent’anni era così – nella sua minuscola cucina esisteva la stessa combinazione di Nespresso e di moca che Esther allestiva di ufficio in ufficio e di casa in casa in tutti i posti in cui lei e Linaldo prendevano il caffè insieme. Vale a dire in tutti gli alloggi e in tutti i magazzini di un certo numero di cantieri nel corso di un certo numero di anni. Quelle abbinate di oggetti e luoghi – Nespresso-moca, magazzino-casa – li accompagnavano ovunque, come una sorta di marchio della ditta. Pure nella cucina della casa vuota, naturalmente, a Feltre, nel bellunese. Quella che avrebbe dovuto essere la casa vera ed era sempre stata la casa vuota. Avevano una moca e una Nespresso anche lì.
“Tu non lo prendi, il caffè?” Chiese Linaldo. Lei alzò e spalle. La Nespresso restò inattiva, non fece la scorreggina metallica che s’accoppiava solitamente al gorgoglìo della moca. Niente caffè per Esther. Eccolo, lo strascico dell’ultimo litigio.
Dopo aver deposto il vassoio sul tavolino basso, davanti al divano su cui Linaldo s’era lasciato cadere, Esther non si sedette accanto a lui. Tornò alla sua sedia, dietro la scrivania. Un altro strascico.
“Ancora trenta metri,” disse Linaldo, senza alzare lo sguardo. Si sforzò di non pensare a lei e ai suoi maledetti strascichi. Pensava al cofferdam.
“Sei preoccupato?”
“Lo credo bene che sono preoccupato,” sbottò. “Che domande! Come l’alziamo, di altri trenta metri, se fa acqua già ora…”
“Furio che dice?” Chiese Esther.
“Che vuoi che dica… Ne parlerà al Cliente. Ma già me l’immagino, cosa diranno… Sarà dura.”
* * *
Più tardi, quando tornò in ufficio – la stecca prefabbricata serie top dell’Edilfer, quella riservata alla direzione, che dominava la collinetta dov’erano ubicate le stanze di Furio, la sua e quelle degli altri tre o quattro dirigenti del cantiere – Linaldo ebbe bisogno di un altro caffè.
La segreteria di direzione era un camerone tappezzato di scaffali e faldoni d’archivio, e divideva la stanza di Furio da quella di Linaldo. Aveva tre porte: una che dava sul corridoio e altre due – una su una parete e l’altra su quella opposta – che davano nella stanza di Furio e nella sua. Appena più grande, quella di Furio, perché lui era il direttore. Condividevano la segreteria. Condividevano le segretarie di direzione. Dirimpetto c’era la sala riunioni.
La porta di comunicazione tra l’ufficio di Linaldo e la segreteria era aperta e attraverso il vano della porta Linaldo ordinò ad alta voce un caffè. Glielo portò Sonja, la più carina delle segretarie. Anche quello fatto con la moca.
Il caffè che gli faceva Esther era migliore. Ma quello che gli portò Sonja era diverso. Approfittò del momento in cui non c’erano le altre, in segreteria, chiuse la porta dell’ufficio di Linaldo dietro di sé, e mentre posava la tazzina di caffè sulla sua scrivania si chinò per appioppargli un bacio. Un lungo bacio in bocca, con lingua e tutto, e Linaldo fece salire una mano lungo la sua coscia, mentre con l’altra lasciava cadere una zolletta di zucchero dentro il caffè.
“Ancora non hai imparato a farlo, il caffè,” le disse Linaldo. Glielo disse in inglese. Lei sorrise. Lasciò che la mano di Linaldo salisse ancora e quando lui finì il caffè raccolse la tazzina e la zuccheriera, mise tutto sul vassoio, si risistemò la gonna e uscì. Sempre sorridendo.
Durava da un po’, a intervalli irregolari. Sonja era appena sotto i trenta ed era tajika, di Dushanbe. Ma parlava un buon inglese e aveva già lavorato, in passato, per società internazionali, aveva anche vissuto in Russia, però in nessuna di queste esperienze aveva imparato a fare un buon caffè.
* * *
Il giorno dopo era domenica e malgrado tutti i problemi di lavoro Linaldo decise di staccare e si prese alcune ore mattutine per andare a caccia. Era sempre stato cacciatore. Aveva cacciato fin da ragazzo, nel Cadore. Poi aveva cacciato più seriamente, giù in Africa. In Etiopia, Namibia, Sud Africa. Risvolti venatori delle dighe. Diverse dighe, diversi paesi, diversi territori di caccia, diversi tipi di preda. Lì in Tajikistan, il luogo erano le prime alture che annunciavano il Pamir, più o meno a una trentina di chilometri dal cantiere. La preda era una specie di muflone di montagna che chiamavano argali. Aveva grandi corna arcuate e una pelliccia folta e riccia, la sua carne e le sue sacche di grasso fornivano il condimento base del plov, il piatto nazionale tajiko, a base di riso. Linaldo pensava ai soliti trofei – le corna, la pelliccia – ma s’era anche messo in testa di farsi preparare un bel plov da Sonja, condito con la carne e col grasso del suo argali. Non era ancora riuscito ad abbatterne nessuno. Era una preda difficile.
Partì prima dell’alba con Rachid, il magazziniere, cacciatore anche lui. Buon cacciatore. Furono sul posto in meno di un’ora e quasi subito trovarono le tracce dell’argali e ne avvistarono un esemplare, un grosso maschio, che gli fece sputare l’anima ad arrampicarsi per balze e dirupi, si mostrò altre tre o quattro volte, sempre a distanza, senza mai lasciar loro il tempo di prendere la mira, si dileguò improvviso com’era apparso e fece perdere le sue tracce quand’era ormai troppo tardi per cercarlo ancora. Impossibile inseguirlo a piedi, avrebbero dovuto raggiungere il fuoristrada e fare il giro dall’altra parte della valle, sul versante opposto, tagliandogli la strada. Non c’era tempo. Rientrarono prima di pranzo a mani vuote, senza aver sparato neanche un colpo.
* * *
Quanto a Sonja, andava avanti ormai da un paio di mesi, e non era ancora chiaro, a Linaldo, quanto se ne sapesse in giro. Prima o poi, se ne sa sempre in giro. Ma non conosci mai con esattezza quanto né quando. Questo almeno era quel che capitava a lui, nelle varie relazioni avute con diverse ragazze del posto in diversi cantieri. Del resto, non gli interessava neanche granché quando e quanto ne sapessero gli altri. Tanto, a Esther lo diceva lui stesso, e glielo diceva subito.
Non erano mai state relazioni clandestine, nessuna, nemmeno la prima. Quella che aprì la serie. Successe in quel cantiere in Namibia, in modo così banale… Un piccolo rigurgito di rabbia, screziato da qualche miniscola venatura d’odio – ma giusto una punta quasi impercettibile, emersa a sorpresa – successivo a uno dei loro litigi. Più o meno, configurava già la meccanica delle infedeltà future: lite, musi lunghi di lei, reazione di Linaldo che si prende una locale, generalmente pescata tra le segretarie di direzione, quasi immediata confessione – ma confessione è una parola grossa: non c’era nessun dramma, in quel passaggio, era una comunicazione asettica, pressoché superflua e quasi innocua – a Esther, che del resto aveva già intuito tutto.
Ma forse, sotto la crosta incolore di quel trito meccanismo d’adulterio, un piccolo dramma sopravviveva, da qualche parte un focherello covava ancora… Linaldo lo sospettava, e si chiedeva se fosse più conveniente lasciarlo divampare, prima o poi, o continuare a soffocarlo nella routine del loro ménage collaudato.
In genere durava due o tre mesi – con Sonja, in quel cantiere di Roghùn, erano già al limite – dopodiché per un po’ sul loro matrimonio tornava a calare un clima di bonaccia. Vera bonaccia. Niente liti. Niente musi. Niente rabbia. Niente odio, nemmeno in quelle minuscole dosi cui il corpo mitridatizzato della loro unione s’era ormai così ben assuefatto. Cade il vento, tutto è stabile, non si muove più nulla. Vele sgonfie. Allora, si pensa al lavoro e a qualche dettaglio di collaborazione pratica. La parte migliore del loro rapporto. Poteva durare per un po’.
Col tempo, Linaldo ed Esther avevano imparato a gestire con molta neutralità, quasi estraniandosene, le fasi adulterine della loro storia. E a tenerla in piedi, anche con successo, sterilizzandole in questo modo. Nessuna gelosia, nessuna possessività, nessuna passione. Soprattutto nel corso di quegli stadi di reciproco tradimento, queste scemenze – così le chiamavano, le rare volte in cui si trovavano a spendervi su qualche parola tra loro – dovevano restare estranee alla loro unione.
Quello che in genere non controllavano, né lui né lei, erano l’innesco e la conclusione di quei periodi. Quando e come si usciva dalla zona di bonaccia. E come e quando vi si rientrava. In mezzo, governavano con freddezza, con competenza, quei tratti di navigazione a vista tra le correnti dei rispettivi tradimenti; fasi che nessuno dei due avrebbe chiamato tempestose, al massimo lievemente turbolente. E amare, questo sì, rancide, fredde e amare. Ma né l’uno né l’altra aveva il potere – o non lo avevano ancora acquisito, nonostante anni di vita comune – di prevedere il momento in cui la bonaccia si sarebbe rotta, in cui quella piccola vena d’odio sarebbe riemersa, e quello in cui, per qualche misteriosa congiuntura anch’essa fuori del loro controllo, si sarebbe inabissata di nuovo.
A partire dal secondo cantiere dopo le nozze, in questo schema inizialmente unilaterale s’era inserito un elemento nuovo. E la questione era diventata reciproca. Da quel secondo cantiere in poi, anche Esther, a quel punto – quando la bonaccia cadeva – si prendeva un amante. Se lo prendeva in genere in magazzino, come lui in ufficio; tra i suoi sottoposti maschi, come lui tra le sue dipendenti femmine. Speculare e altrettanto comodo e privo di ostacoli. Anche per lei. La capa del magazzino. La donna bianca. Bionda. Curata. Cinquant’anni ben portati. Tutto facile. Lui in genere oscillava tra i trenta e i quaranta.
Non c’era acrimonia, in tutto questo. Una commedia di mediocre impasto rappresentata in un angolino della loro unione, con un canovaccio sempre più definito, ruoli e scene sempre più prevedibili; e parti che recitavano entrambi entrandovi con naturalezza, senza che quei personaggi esaurissero affatto, né per l’uno né per l’altra, l’intera personalità degli attori; ne occupavano solo una piccola fetta, una fetta di peso sempre minore. Il ménage coniugale resisteva alle repliche, ne assorbiva con sempre minor disagio le scosse, col tempo la tecnologia degli ammortizzatori che ne attutivano gli impatti si perfezionava sempre più.
Linando si chiedeva, a volte, quanto di quella catena di azioni e reazioni lui avesse davvero bisogno. Riteneva di averne bisogno – si rispondeva – riteneva di averne parecchio bisogno, erano le circostanze del loro matrimonio – forse sarebbe stato più esatto parlare di patto tra loro, e del modo in cui si congiungeva al lavoro – che lo conducevano a questo. E forse anche per lei era lo stesso. Quella sorta d’indipendenza, di cono d’ombra, che l’intersezione matrimonio-lavoro creava per entrambi. Una zona protetta, emotivamente schermata, dove l’uno e l’altra potevano agire in autonomia, tutto sommato contenendo i danni collaterali di quelle azioni autonome. Limitando cocci e tossine e smaltendoli senza eccessive ripercussioni. Anzi, il più delle volte quella zona franca funzionava proprio da fascia cuscinetto, al confine, aiutava a sfogare tensioni. Probabilmente il loro matrimonio – così pensava Linaldo – resisteva di cantiere in cantiere anche grazie agli spazi liberi destinati a quegli esercizi d’evasione. Tacitamente, fin dal principio né lui né lei s’erano promessi l’esclusiva. Questo era quel che pensava lui.
* * *
Erano tutt’e due veneti, Linaldo ed Esther, cadorini. Lui di Agordo, lei di Feltre. Non s’erano conosciuti in Italia, ma in Etiopia. Una diga di vent’anni fa. Lui lavorava in produzione, lei in magazzino. Si sposarono lì, sull’altopiano. Un matrimonio semplice, un’essenziale cerimonia di rito copto celebrata in una chiesetta abbarbicata su certi dirupi da stambecchi a pochi chilometri dalla diga, con due testimoni scelti tra i colleghi di cantiere. La scena più sacrale, più intensa di tutta la pantomima, era stata la cerimonia del caffè, la buna, inscenata in una cappelletta laterale della stessa chiesa, con delle bellissime ragazze etiopi vestite di bianco che avevano tostato chicchi di caffè sul carbone ardente e avevano servito l’infuso di buna con la foglia di ruta, accompagnando quel semplice omaggio domestico con gesti di tale grazia, mentre l’incenso delle candele bruciava, mescolando il suo profumo a quello del caffè appena tostato. Fu la parte più romantica della faccenda.
Poi replicarono le nozze a Feltre, per amici e parenti. Quelli italiani. Quelli che da diversi anni vedevano così raramente, e ancor meno avrebbero visto negli anni a venire. Ci passavano ben poco tempo, in Italia. La casa, quella vuota, la fissarono a Feltre. Ma le case in cui vissero veramente furono quegli alloggi prefabbricati che assegnavano alle famiglie e alle coppie senza figli – perché figli non ne avrebbero mai avuti – nei campi dei cantieri: un paio di camere, soggiorno, bagno e cucina. Di diga in diga, alloggi più o meno tutti uguali in parti del mondo sempre diverse. Africa, Sud-Est asiatico; ora Tajikistan.
Con l’andar del tempo lui divenne capocantiere, lei capa del magazzino. Un ragionevole sviluppo di carriera. Lui, tutto sommato, aveva anche acquisito un ruolo di rilievo nella tradizione dei cantieri italiani all’estero, che come tutti gli ambienti ha una sua piccola nomenclatura, un suo cursus honorum provvisto di una modesta galleria di trofei che nutrono ambizioni e vanità di chi sceglie quel tipo di mestiere.
* * *
In quell’ultimo cantiere, a Roghùn, c’era una novità ulteriore. Quel magazziniere, quel Rachid che Esther s’era preso per amante, quell’aitante trentacinquenne, era anche lui cacciatore. E per una semplice serie di episodi che nessuno s’era preso la briga di alterare, si produsse la strana combinazione che oltre ad andare a caccia con Linaldo, Rachid andasse a letto con sua moglie.
Ma partì da Linaldo, ebbe inizio da lui. Ben prima che lei se lo scopasse. Fu forse un’avventatezza, da parte sua, prendersi per compagno di caccia un uomo che lavorava in magazzino e che aveva, per età e per aspetto, tutti i requisiti per candidarsi alle scelte future di Esther. Certo, Linaldo non poteva immaginarlo, quando per caso si trovò a parlare con quel tale, davanti a un boccale di birra in un bar di Obi Garm. Il caso, o la birra, li portarono a parlare di caccia. E quando scoprirono che era una passione comune, Linaldo ritenne di aver trovato il suo uomo. Quello che cercava sempre, all’inizio di ogni cantiere, in ogni paese: uno del posto che lo introducesse nel nuovo territorio di caccia.
Fu Rachid che per primo gli parlò dell’argali, aiutandolo a mettere a fuoco la nuova preda da inseguire. E lo guidò per quella riserva dove lui era un novellino. Rachid lo aiutò a immaginare, prima ancora di vederli, i percorsi e le scene del nuovo inseguimento: sentieri di montagna, alture brulle, rocce, vette innevate. Le prime pendici del Pamir. Fu Rachid che s’incaricò di procurargli un buon fucile, i permessi necessari e tutto l’occorrente. La domenica successiva andarono per la prima volta a caccia insieme.
Durante quella prima battuta, Linaldo scoprì che Rachid lavorava in magazzino. Uno strano caso davvero. O forse non un caso, non più. Era un fatto, ormai, era accaduto. Linaldo decise di non opporre resistenza; di non tagliare, preventivamente, la catena delle sue possibili conseguenze. Del resto, aveva cominciato lui. Esther doveva ancora fare le sue scelte. Prima Rachid divenne compagno di caccia di Linaldo. Solo dopo amante di sua moglie.
E quando ciò avvenne, di nuovo Linaldo non trovò dentro di sé ragioni – non una ragione sufficiente – per recidere quella catena. Poteva funzionare. Era una situazione al limite, ma gestibile. Non occorreva rinunciare a un buon compagno di caccia per questo. Non sapeva cosa ne pensassero gli altri, Esther e Rachid, ma dal silenzio che seguì concluse che dovevano vederla più o meno allo stesso modo e per un po’ continuarono a cacciare insieme. Continuarono a dare insieme la caccia a quell’inafferrabile argali.
Non ne parlarono mai apertamente. Non ce n’era bisogno. Non nei piani diversi su cui si muovevano. Linaldo ed Esther, nel loro rapporto; Linaldo da una parte ed Esther dall’altra, coi loro amanti; e Rachid, in tutto questo. Con due ruoli del tutto distinti. Che c’era da dire, tra Linaldo e Rachid, se non parlare di caccia? Non vi fu nulla che costringesse Rachid ad apprendere, in modo inequivocabile, che Linaldo sapeva. E nulla che impedisse a Linaldo di ignorare che Rachid sapeva che lui sapeva. Nessuno dei due (o dei tre) sentì la necessità di un chiarimento. Tutto il contrario. Cacciavano. Nient’altro. Non avevano bisogno di vane chiacchiere, inseguendo l’argali.
Compartimenti stagni. Finché è possibile. Questa, rifletteva Linaldo, era un’altra regola di sopravvivenza della loro unione. Forse, di sopravvivenza in generale. Capacità di isolare. Evitare – o almeno ridurre – le contaminazioni. E’ solo caccia, e non ha nulla a che fare con l’amore. E’ solo amore, e non ha nulla a che fare col lavoro. E’ solo lavoro, e non ha nulla a che fare con la caccia. Finché è possibile.
* * *
“Non ne vogliono sapere,” disse Furio. “Non ne vogliono neppure sentir parlare.”
“Ma non possiamo continuare a salire. Siamo alla milletrenta e le pompe sono già al limite. Come lo tengo asciutto, il piede, se alziamo l’acqua di altri venticinque metri?” Disse Linaldo.
“Non è questo il punto, e lo sai. Non è quant’acqua riusciamo a tirar fuori con le pompe, ma quanta ne passa dentro, nel corpo del cofferdam; e i danni che fa. Siamo già sopra i cinquecento litri al secondo. E’ quasi un fiume. Ma non sentono ragioni. Per loro bisogna salire ancora.” Disse Furio.
“E i consulenti, i francesi, che dicono?”
“Che vuoi che dicano. Fanno i pesci in barile. Non è più una questione tecnica, è politica. Il Primo Ministro ha promesso al Presidente che il sedici novembre, giorno del suo compleanno, avrà il primo giro di turbina, Roghùn genererà quelche centinaio di megawatt. Il primo vagito della Promessa. Quindi l’acqua dev’essere alla millecinquantacinque. Abbiamo venti giorni per riempire l’invaso. Non ci si può fermare ora.”
Erano nell’ufficio di Furio. Solo loro due. Le porte dell’ufficio erano chiuse, sia quella che dava sul corridoio sia quella della segreteria. Le segretarie, dal loro stanzone, sentivano confusamente quei due discutere. Le pareti interne dei prefabbricati di cantiere sono fogli di carta velina, isolamento acustico quasi nullo, dall’altra parte si sentiva tutto. Ma l’italiano di nessuna di loro era ancora all’altezza. Intuirono che parlavano del cofferdam e capivano che c’era burrasca nell’aria, ma non andarono oltre questo. Meglio così, si disse Linaldo.
Quando uscì, lo fece dalla parte della segreteria. Era scuro in volto. Traversò lo stanzone e fece un cenno a Sonja, senza preoccuparsi che anche le altre vedessero. Lei lo seguì dentro. Lui le disse solo che sarebbe passato a trovarla, la sera.
* * *
Prevedeva già come sarebbe andata. Avrebbero finito col litigare, lui e Furio. E, come sempre, ne sarebbe uscito con le ossa rotte. Non sapeva perché, ad ogni cantiere, le cose si disponevano in modo tale che a un certo punto andava a cacciarsi in quell’angolo. E doveva affrontarlo. Doveva affrontare Furio, per uscirne.
Era già successo in Etiopia, in Namibia, in Malesia. Ruoli diversi, man mano che crescevano, nelle diverse fasi di sviluppo delle loro carriere; ma stesso schema. E alla fine, anche lì come altrove, scoccava la scintilla che innescava quella rivalità. Perché cascarci ancora? Un’altra, l’ennesima batosta? Visto che lo sapeva, avrebbe dovuto andarci più cauto…
—–
- Continua