Al Teatro alla Scala di Milano
Verdi al museo
Il regista Alvis Hermanis ha allestito "Trovatore" di Giuseppe Verdi in un museo polveroso che nell'ultimo atto trascolora in bianco e nero. Una scelta un po' confusa, che è stata sonoramente fischiata dai loggionisti milanesi
Con il Trovatore di Verdi in scena alla Scala di Milano non abbiamo la solita messa in scena tradizionale che tutti i melomani si aspettavano di trovare. Il regista Alvis Hermanis, già molto conosciuto per le sue non canoniche regie nei più importanti festival teatrali di prosa europei, questa volta ha ambientato la famosissima vicenda verdiana in una pinacoteca colma di opere rinascimentali e fiamminghe. Dal celeberrimo ritratto della famiglia Medici del Bronzino alla Madonna del cardellino di Raffaello. I cantanti sono, a cura di Eva Dessecker, vestiti da personale del museo con le divise e il relativo cartellino. Il coro, curato egregiamente da Bruno Casoni, è costituito dai visitatori in abiti informali da turista. Le pareti dai colori decisi, ricoperte di iconici dipinti, continuano a scorrere liberando variegate profondità di campo. Ogni tanto calano dei teli su cui si proiettano, curati efficacemente da Ineta Supinova, dettagli delle opere d’arte.
Nell’ultimo atto, a scena aperta, le pareti vengono disallestite e le cornici spezzate e ammonticchiate mentre sulle pareti vuote con il tipico cambio di colore dove erano prima posizionati i quadri, compaiono ora flebili riproduzioni in bianco e nero Il tutto mentre il cast continua a cantare fedelmente il libretto di Salvatore Cammarano.
Già dal primo atto il loggione, e non solo, ha indirizzato decisi buu al regista. Mentre il cast per fortuna si è salvato, ed è comunque stato apprezzato con calorosi applausi. Accanto a me in platea i miei ospiti messicani, per la prima volta a La Scala, alla fine mi domandavano disorientati il perché di questi buu da parte del pubblico. E io a spiegargli che i melomani solitamente non amano gli interventi registici sulle sacre opere della tradizione lirica. Specialmente su quelle verdiane che tutti noi fin da piccoli abbiamo inevitabilmente metabolizzato e che mentre le ascoltiamo ci risuonano dentro intimamente e si materializzano nelle nostre menti con le canoniche scenografie ormai cristallizzate nella nostra memoria.
Quindi, il regista sostanzialmente non è stato gradito e alla fine, quando è toccato il suo turno a raccogliere gli applausi dal pubblico, questi applausi non sono arrivati, sostituiti da plateali contestazioni. La regia di Hermanis, assieme alle scene curate da Uta Gruber-Ballehr non erano in effetti così straordinarie, ma erano comunque un tentativo per raccontarci l’essenza di questo Trovatore. La lirica, noi italiani, la viviamo dentro precisi schemi che non permettono varianti significative. Lui ha voluto farci percepire come questo complicato racconto verdiano, carico di colpi di scena, ancora più inverosimile di certi serial televisivi, poteva essere inserito in un immaginifico museo dove le storie, come i volti rappresentati nei dipinti, fossero per noi apparentemente immutabili. Pensiero che ci viene smontato platealmente nell’inaspettato disallestimento in diretta dell’ultimo atto, in cui le opere spariscono dalla scena e sembra che la storia debba forzatamente procedere in nuove forme.
In fondo le pinacoteche, come ci ricordava Manganelli, sono delle magnifiche prigioni dove rinchiudiamo il meglio delle nostre epoche passate. Perfetta metafora di come noi melomani vorremmo rinchiudere le nostre amate opere dentro un invalicabile carcere da dove non sarà mai possibile evadere per nuove perigliose avventure.
Notevolissimo il cast a cominciare da Francesco Meli, potente indimenticabile Manrico, e Liudmiyla Monastyrka, ottima Leonora; per non parlare del mezzosoprano Violeta Urmana, perfettamente calzata nel ruolo di Azucena. Come pure Nicola Luisotti, il direttore d’orchestra, che ha saputo condurre l’opera magistralmente anche in questa inaspettata e non gradita versione scaligera in coproduzione con Salisburgo in scena fino al 29 febbraio.