Lidia Lombardi
Stanotte la cerimonia a Hollywood

Memorie da Oscar

Alla vigilia della consegna delle mitiche statuette, Vincenzo Mollica (con Steve Della Casa) riavvolge il filo dei suoi ricordi di cronista storico. E racconta i retroscena di tutte quelle occasioni nelle quali il mondo dei divi ha mostrato le proprie debolezze

Appena concluso il rito Rai autocelebrativo del Festival di Sanremo è cominciato quello autoreferenziale del cinema americano: la notte degli Oscar, fissata per il 9 febbraio, questa notte. A raccontare entrambi è da trent’anni Vincenzo Mollica, l’onnivoro cronista “impressionista e impressionabile”, come vuole chiamarsi, dal 1980 al TG1. Tanto onnivoro e abile reporter che il suo cervello è inesauribile archivio di immagini, retroscena, incontri ravvicinati con il gotha della Settima Arte. Riversati adesso in un libro che chi ama il cinema e vuol capire ciò che gli ruota intorno può leggere con soddisfazione. L’Italia agli Oscar è la “cronaca” di quanto è accaduto e accade ad Hollywood nella notte seguita in tv da due miliardi di persone e il racconto di prima mano di come i registi e gli attori italiani hanno affrontato la consegna della statuetta capace, dice Mollica, di cambiare le loro vite.

È una sorta di discorso continuo, tipico della facondia di Mollica, questo volume in carta patinata denso di fotografie, impaginato in italiano e in inglese (lo ha pubblicato l’Istituto Luce insieme con l’Editore Sabinae) e firmato anche da Steve Della Casa, il critico cinematografico che nell’impresa ha svolto il ruolo di curatore. Mollica – che non è solo cronista ma sa bene valutare esteticamente qualsiasi pellicola – attacca con una delle sue iperboli: i premi Oscar stanno al Cinema quanto in una cattedrale l’altare maggiore sta a quelli delle cappelle laterali. E, per seguire nel paragone, chi lo vince va in Paradiso, chi si ferma alla nomination resta dantescamente in Purgatorio, chi s’accontenta di sfilare sul tappeto rosso “nei momenti di stanca” è destinato a infilare l’imbuto dell’Inferno. La copertina è invasa dallo straripante sorriso di Anna Magnani che sventola in vestaglia il telegramma che le annuncia l’Oscar per La rosa tatuata. Ma i capitoli del libro cominciano con la prima volta di Mollica a Los Angeles, in quel 1990 nel quale il miglior film straniero fu Nuovo cinema paradiso di Tornatore. “Peppuccio” era stato strapazzato dai critici italiani, nonostante gli accorti tagli alla pellicola voluti dal produttore, Franco Cristaldi, che alla fine fecero l’impresa. Cristaldi se ne gonfiò tanto il petto da salire sul palco a stringere (chissà, a contendere) la statuetta con il suo regista pupillo, che accettò senza parere di offendersi l’intrusione e riuscì ad avere il tempo di dire solo uno striminzito “grazie”.

Davvero un atto di umiltà se si tiene conto delle rigidissime regole vigenti attorno e dentro al Dolby Theatre, un’intransigenza che è anche una prova muscolare degli americani, per i quali gli Academy Awards sono le reificazione della loro supremazia mondiale. Perché, avverte Mollica, se il Festival di Venezia vuol dire arte e Cannes mercato, gli Oscar sono l’esibizione del Potere. Vale a dire del primato dell’industria cinematografica Usa. La statuetta al miglior film straniero è percepita come una graziosa concessione, ha un peso quando i premi si moltiplicano, come avvenne per i tre a La vita è bella, o i nove all’Ultimo Imperatore di Bertolucci.

Ecco allora il protocollo rituale, ecco i vizi e i vezzi della kermesse. L’alone di mistero su chi vincerà è autentico. Nessuno sa che cosa c’è scritto nelle buste che gli emissari della Academy tengono in una valigetta chiusa a doppia chiave. Tutti vogliono partecipare al party che segue la proclamazione nella residenza del Governatore della California, ma è riservato soltanto ai vincitori che vi entrano inamidati e vi escono con gli abiti stazzonati e le occhiaie, tanto la festa è finita. E non fa niente se il cuoco si sia prodigato a chiedere a chi è nella cinquina da dove venga per approntare un menù declinato sulle cucine nazionali che risultano peggio che tradite. Le regole sono regole. Ma il cronista Mollica annota, e filma con l’operatore, accantonando per un po’ la proverbiale bonomia, quel “mollichismo” sempre assolutorio come lo ha definito Aldo Grasso. Spietato è il nostro contro i press agent, salvando solo il “geniale” Enrico Lucherini. Gli altri sul tappeto rosso, nell’imminenza del passaggio di personaggi di secondo piano, si sfiniscono per agganciare un’intervista, una foto. Sono una “pletora di nevrotici che si muovono dentro le gabbie che essi stessi hanno creato”. Il loro party, il mercoledì antecedente alla premiazione, è perlopiù disertato dai big e deprimente perfino nel buffet. Ma non scema la protervia con la quale vogliono dettare legge contingentando i minuti, i secondi degli incontri con attori e registi più o meno celebri.

E poi ci sono i fuori scena. Jack Nicholson che a un metro dal tappeto rosso arriva in macchina e dalla vettura scendono prima due lattine di birra, poi lui con il solito ghigno alla Shining, poi due biondone docili a beccarsi dal divo una pacca sul sedere. E c’è il “fuck off” indirizzatogli sottovoce da Michelangelo Antonioni, già muto a causa dell’ictus, paziente di fronte al bailamme che gli toccava sopportare per ricevere l’Oscar alla carriera (era il 1995) ma alla fine incapace di trattenersi di fronte alla sbruffoneria del suo protagonista in Professione reporter.

Anche a Fellini non andava di ritirare di persona l’ultimo dei suoi cinque Oscar, quello alla carriera. Era il 1993, era già malato, ma Giulietta Masina insistette per il viaggio a Los Angeles. Però strappava risate a tutto l’entourage con i giochi di parole attorno a tal mister Katz, capo del cerimoniale degli Oscar (del resto il santone dell’eros nella Città delle donne lo aveva chiamato Katzone). O con la definizione della sua felicità mentre camminava sottobraccio alla Loren con l’Oscar bene in vista stretto al petto. “Vedi – disse a Mollica – io sto in una situazione straordinaria, con una donna straordinaria e dotata di questa splendida balconata sulla quale è fiorito un Oscar”. Già, Sophia. Voleva averla protagonista del film che vagheggiava di girare, confidò al cronista sull’aereo che lo riportava a Roma. Il titolo avrebbe potuto essere L’attore e doveva cominciare con un omaggio a Salvo Randone, il più grande “acchiappa applausi” della recitazione italiana, diceva. La morte – per la quale Woody Allen, che il 31 ottobre del ’93 si trovava a Roma, pianse come un bambino negli corridoi di Saxa Rubra dove si era recato per un’intervista – gli impedì di realizzarlo.

L’Oscar all’Italia più commovente? Quello conferito a“Il Postino, il film che Massimo Troisi volle terminare a costo di affaticare tanto il suo cuore da morirne. Fu premiata la colonna sonora di Bacalov, ma la pellicola ebbe cinque nomination. Tra le quali quella, postuma, di miglior attore a Troisi, che era stato in realtà la mente di tutto il set. Il quale, del resto, già era venuto a Los Angeles perché aveva una storia con una “guagliona”, Clarissa Burt. Era un Troisi ancora vigoroso, allegro. E Mollica lo ricorda protagonista di un siparietto. Erano a pranzo in uno dei pochi ristoranti in cui si mangiava bene all’italiana. Entra Al Pacino con due sventole di ragazze, chiede un separè. Troisi commenta: “E quello sarebbe Al Pacino? È curto. Però, vedi che faccia da grande schermo….”.

E l’Oscar più entusiasmante? Quello a Roberto Benigni. Tanto popolare oltreoceano dopo il battage in tv, da Larry King o al David Letterman Show. Sul palco del Dolby Teatre la Loren fece appena in tempo a pronunciare “Roberto” e lui cominciò a scavalcare le poltrone per raggiungerla. Ma lo scoppiettio di entusiasmo continuò in strada: tutti i taxi di Los Angeles si fermavano al suo passaggio e lui improvvisava balletti on the road. Un exploit che vinse l’opposizione degli ebrei di America cui non piacevano i suoi lager messi in commedia. E che generò anche l’arguzia di Benigni e Cerami, lo sceneggiatore del film, entrambi appassionati di crittografia. Che a proposito de La vita è bella parlarono di Lager Mania (ovvero La-Ger-mania).

La cavalcata non dimentica le onorificenze alla grande scuola italiana dei musicisti, scenografi, costumisti, direttori della fotografia e degli effetti speciali, i montatori, i truccatori. Morricone, Ferretti-Lo Schiavo, Rambaldi, Storaro, Piovani, Canonero, Pescucci, Tosi, Scalia…Poi ci sono gli Oscar ingiustamente negati. Avrebbe dovuto riceverlo, osserva Mollica, Ettore Scola per Una giornata particolare: “Ma non avvenne anche per certe piccinerie del nostro cinema, che invece di promuoversi si taglia le gambe con i veti e le invidie incrociate”. Meriterebbero una statuetta Dario Argento, Nanni Moretti (“Sarei curioso di vedere cosa direbbe nei 50 secondi sul palco”) e Giancarlo Giannini. Per fortuna – dopo il trionfo nel 2014 di Paolo Sorrentino per La grande bellezza – è stato rimediato, in questa edizione, con l’Oscar alla carriera a Lina Wertmuller. “Una carriera straordinaria, incentrata su film che in Italia hanno avuto un grande successo popolare ma che all’estero sono stati visti come veri e propri capolavori del Made in Italy”.

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