A proposito de "La danza della pioggia”
Le parole e le cose
La nuova raccolta poetica di Paolo Febbraro, tra echi e citazioni, costruisce un reticolo di immagini in cui le parole preistoriche sembrano uscire dalla pagina e avere una loro consistenza
La «musica di ciò che accade» è spesso il motore precipuo della poesia. Fedele al monito heaniano Paolo Febbraro non poteva non esserlo: autore di una bella e sentita monografia sul poeta di Castledawson (Leggere Seamus Heaney, Fazi, 2015), sembra molto vicino ai temi letterari irlandesi – quando può, risiede a Dublino, infatti – anche attraverso un altro grande interprete del rinascimento poetico, Michael Longley (da pochissimo è uscita la silloge Angel Hill di Longley, curata proprio da Febbraro per Elliot). Ebbene, fresca di stampa è la nuova raccolta del poeta romano, La danza della pioggia (Elliot, 2019, pp. 102, € 15) che ha qualcosa di heaniano già nel titolo: come non ricordare The Rain Stick, il fusto di pioggia capovolto, estasi dell’orecchio, bellezza inaudita per l’ascolto? Molte delle poesie di questo libro vanno in tale direzione: la lirica incipitaria, ad esempio, L’errore, rimarca i paesaggi uditivi del mondo odierno in una lunga sfilza di citazioni (dai Karamazov al teatro di Sartre). Per poi ammettere: «Meglio brancolare/ fra i manubri dell’apparenza/ con la propaggine d’una speranza./ Se poi magari qualcuno un giorno/ ci creda catturati in una danza».
Il potere nominalistico prosegue con un’altra poesia suggestiva, La prima volta che l’uomo nominò una cosa, dal sapore frostiano. Le parole preistoriche sembrano uscire dalla pagina e avere una loro consistenza: «E la femmina che risponde/ con sillabe molate, lattiginose,/ già cagliate, abbrustolite oppure/ con un principio di stagionatura». Il mondo del linguaggio è la prima possibilità di spiritualizzazione della materia, evenienza di un’inedita intimità: «Non lo capiscono ancora/ ma è il nuovo mondo in cui s’incontrano». Ma Adamo è un uomo in progress, già smaliziato dai vaniloqui di potere («sono, sonno, sogno, regno»), e nella poesia di Febbraro – che fa largo uso della persona loquens – il dio, la donna, persino il purgatorio sono forse proiezioni di un sentire “originale” ormai perduto: un tentativo, cioè, di pervenire attraverso la poesia al prima dell’errore, all’integrità che è anteriore alla caduta. Ecco perché appare, come nell’Annunciazione di Leonardo o in Marienleben di Rilke, un angelo esitante nell’attimo che precede l’incontro con Maria. Il divino che ammira incessantemente la creatura. «“Perché sono angelo se è questo/ essere donna? Oh come si ripiega/ la mia immensità… come s’infoltisce/ il mio divinare evasivo…».
La costante tensione alla perfezione edenica è sbalzata dalla ricaduta nel mondo ordinario. La foucaultiana Storia della follia riporta il lirico al prosaico, il metafisico al politico, seguendo una parabola di tematizzazioni e un registro linguistico che rompe gli argini del poeticus per entrare decisamente al fuoco della controversia con recriminazioni comunali o lettere ai senzatetto. Nella terza parte del libro l’ambientazione si fa irlandese: River cottage, ossia la contea di Wicklow. Genius loci ancora Heaney, che chiuse North con una celebre poesia (Exposure, ultimo movimento di Singing School), localizzata proprio a Wicklow. L’émigré Febbraro preferisce «essere qui»: «Il vento è grave, male inumidito,/ la pioggia che s’inclina/ passa al rastrello il mio udito,/ copre d’insulti e sussurri monotoni/ la musica delle sfere celesti».
La quarta sezione è dedicata, invece, alla bellezza femminile e agli affetti domestici. L’iconicità della donna si presenta sganciata dagli affari quotidiani, arrivando persino a uno stato di deregolamentazione («La bellezza di mia moglie è fuorilegge,/ non è prevista dai negoziati, è priva/ dell’appropriata aliquota fiscale»). Il poetare è un viaggio verso di lei, in direzione di una femminilità che è anche esercizio della scrittura, avventura dello stile. La quinta e ultima parte tira le fila del discorso lirico fino all’emblematica Senza titolo, ossia “non vantare diritti”, nella quale irrompe ancora una volta Heaney in un’alternanza di gravità e ironia («E finalmente dirò la verità,/ che di quanto dicevi capivo/ una parola su due/ e annuivo lo stesso»), Seamus piccolo semidio, protettore del mondo poetico e, virgilianamente («finché scomparirai, essendo stato molto»), figura accompagnatrice nella vita.
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Accanto al titolo, Umberto Boccioni, “Gli stati d’animo: quelli che restano”.