Un piccolo, prezioso saggio del premio Nobel
Sudamerica immaginato
In breve e prezioso scritto Mario Vargas Llosa dimostra come gli europei non abbiano solo colonizzato l'America Latina, ma le abbiano rubato l'identità. Rendendola l'incarnazione dei propri sogni e dei propri incubi
L’America Latina non esiste. O, meglio, quella vera non esiste per noi europei, abituati come siamo a cercare in quel Continente il paradiso o l’inferno (a seconda delle convenzioni o delle convinzioni). È la teoria di Mario Vargas Llosa (uno che di certe cose se ne intende), espressa in un saggio godibile quanto pignolo, appena pubblicato in italiano dalla piccola ma preziosa casa editrice liberilibri: Sogno e realtà dell’America Latina, pp. 33+XIV, 10 Euro, con un’introduzione di Carlo Nordio. D’altra parte, la faccenda partì male fin dall’inizio: «Cristoforo Colombo – ricorda Vargas Llosa – si sforzò di vedere non quello che era davanti ai suoi occhi e sotto ai suoi piedi, ma l’India, la Cina, l’Asia della seta e delle spezie che portava con sé nel suo desiderio e nella sua immaginazione». E questo, sostiene l’autore della Zia Julia e lo scribacchino o delle Avventure della ragazza cattiva, è il destino amaro di quel Continente: incarnare sogni e desideri non propri.
Mario Vargas Llosa – con la civetteria polemica che gli è propria – fa un lungo elenco di avventurieri e colonizzatori della prima ora che non videro ciò che videro ma ciò che sognavano (o temevano): «Questa inclinazione a idealizzare l’America, proiettando nelle sue selve, cordigliere, altipiani e mari le favole e le leggende più antiche e i luoghi e i popoli dell’immaginazione, non era esclusiva della gente colta: veniva infatti condivisa dagli europei più umili». Il punto è tutto qui: l’America Latina non è stata soltanto colonizzata nel senso materiale del termine, ma le è stata rubata la vera identità. Al punto che sovente gli stessi americani hanno creduto di essere altro da sé: «l’Europa proietterà spesso sull’America le utopie, le frustrazioni artistiche e ideologiche (anche religiose) nate nel suo seno e condannate laggiù, a vivere confinate nei regni dell’illusione». In pratica: gli europei hanno dato corso in America Latina ai propri fantasmi, concedendosi nel nuovo Continente ciò che si vietavano nel Vecchio. È stata una lunga teoria di infatuazioni fallaci, dai mostri andini a Macondo (Vargas Llosa non fa cenno, ovviamente, all’odiato García Márquez, ma l’ombra dell’entusiasmo globale per il cosiddetto realismo magico pervade sotto traccia queste pagine).
Sono da non perdere, in questa chiave (quella dell’innamoramento fallace) le notazioni dedicate al mito della rivoluzione cubana. Da un lato, Vargas Llosa loda la concretezza dei “rivoluzionari” dall’altra irride la cecità di chi (Günter Grass e Régis Debray sono i più citati) ha confuso il mito con la realtà di una «dittatura che si è guadagnata l’onore di essere la più duratura dell’America Latina» (il saggio è del 2008, ma è improbabile che Vargas Llosa sul tema oggi abbia cambiato idea). Ancora una volta, gli europei finiscono per amare del Sudamerica ciò che mai tollererebbero in casa propria: «Avrebbero mantenuto lo stesso entusiasmo se il subcomandante Marcos avesse cercato di portare a termine la sua “rivoluzione postmoderna”, come venne chiamata da Carlos Fuentes, non nello Yucatan, bensì in Bretagna o in Alvernia?». Naturalmente, Vargas Llosa giustifica i “suoi”: «Incarnare l’immaginazione per l’“altro” ha prodotto un curioso effetto: molti latinoamericani hanno adottato quelle immagini di sé, alterate dalla fantasia o dall’alienazione religiosa e ideologica occidentale e, invece di incarnare la propria realtà, ne hanno creata un’altra in accordo con quei modelli e imiti importati». E così torniamo al punto di partenza.
Insomma, si tratta di un piccolo saggio imperdibile: non solo per la sostanza (sia pure fatta la tara alla proverbiale rabbia dell’autore) ma anche per lo stile (colorato dalla stessa rabbia): il tono è persuasivo ancorché un po’ professorale e ricorda il Vargas Llosa che tentò la carta politica nel suo paese, il Perù, finendo sconfitto da un peruviano acquisito, il giapponese Alberto Fujimori. Il quale portò il suo Paese più a destra di dove voleva portarlo il grande scrittore, per altro. Questo per dire che, benché la politica non sia mai stato suo forte, qui Vargas Llosa compone un’invettiva non solo nella sostanza condivisibile, ma accorata e geniale: una tirata antieuropea educata e motivata (niente a che fare con Trump e Johnson, per intenderci). Solo, resta da chiedersi: ma Vargas Llosa avrebbe scritto le stesse cose due anni dopo? Ossia dopo aver ricevuto dagli odiati/amati europei il Premio Nobel?