Luca Fortis
I generi e la scena

Se il teatro è donna

Incontro con Kiara Pipino, regista e docente universitaria Usa, una delle massime esperte della scena americana al femminile. «Le donne, indipendentemente dal talento, ricevono un trattamento speciale, fortemente influenzato da un evidente o latente sessismo»

Negli ultimi anni le registe teatrali donne negli Stati Uniti hanno riscosso molto successo, eppure il teatro americano rimane ancora un mondo abbastanza maschilista. Sta per uscire Women Writing and Directing in the USA: A Stage of Our Own, pubblicato da Routledge e scritto dalla regista teatrale Kiara Pipino: presenta interviste con alcune delle registe teatrali di maggior successo che lavorano a Broadway e negli Stati Uniti. Il libro fornisce una panoramica su ciò che significa e ciò che serve per essere un autore e regista di successo femminile negli Stati Uniti, dove il panorama teatrale professionale è ancora prevalentemente dominato da uomini bianchi e etero. Le interviste esplorano una vasta gamma di temi, tra cui se e come la prospettiva femminile degli artisti ha influenzato la loro arte, il significato sociale e culturale del loro lavoro e come il teatro e le donne che lavorano nel teatro possano partecipare alla costruzione di una società contemporanea in cui le persone abbiano una maggiore consapevolezza sociale. Kiara Pipino intervista alcune tra le migliori registe del teatro americano, come Young Jean Lee, Pam MacKinnon Dominique Morisseau, Rachel Chavkin e Martyna Majok.

Succedeoggi ha parlato con l’autrice, la regista teatrale e insegnante universitaria, Kiara Pipino.

Lavori negli Stati Uniti da anni come regista teatrale e professoressa universitaria di teatro: come è nato il progetto del libro? 

Il libro include una serie di interviste ad autrici e registe. Quello che mi ha spinto a portare avanti il progetto è la curiosità di capire se e quanto il fatto di essere una donna pesi sulla carriera teatrale. Ancora oggi, il teatro americano è prevalentemente dominato da uomini, per lo più bianchi e eterosessuali. Broadway viene ancora definita come “The Great White Way”. Le donne, indipendentemente dal talento, ricevono un trattamento speciale, fortemente influenzato da un evidente o latente sessismo, per cui, per avere successo o anche solo per ottenere quanto desiderato, le donne devono trovare vie alternative, oppure “manipolare il sistema” a loro favore. Questo succede in molti campi, non necessariamente solo nel teatro. Ma mi interessava capire come donne in posizione di leadership o di potere, il regista è di fatto il “boss” di una progetto artistico teatrale e le autrici sono le detentrici dell’oggetto della produzione, siano riuscite a navigare nel sistema e a ottenere quanto desideravano per la produzione.

Non nascondo che l’idea mi è venuta a seguito delle vicende legate al movimento MeToo, che ha di fatto scoperchiato la cosi detta “can of worms.”

Dalle interviste che ho condotto sono venute fuori realtà interessanti, situazioni comuni e problematiche prettamente fondate sull’incapacità del sistema di essere “gender blind.” Per esempio, una donna regista o autrice si sente limitata nel processo di produzione perché nel caso della presenza di figli, questi hanno priorità o determinano significativi movimenti nel calendario di produzione. Senza voler affermare che i registi uomini non si curano dei figli, è decisamente più raro sentire un regista uomo negoziare il calendario in funzione dei figli, tanto ci sono le mogli/compagne che se ne prendono cura e basta una telefonata la sera. Un’altra realtà, soprattutto per le registe, è il modo di vestire. In production meetings o nelle prove, bisogna sempre trovare un equilibrio tra la femminilità e l’affermazione della gerarchia. Abbigliamenti troppo femminili tendono a deviare l’attenzione, in modo subliminale e a privare la persona della propria incisività. Inoltre, se una donna ha un concetto artistico  un po’ azzardato o semplicemente fuori dalla norma, deve giustificare qualsiasi cosa in modo più che dettagliato. Questo non succede mai a un uomo e questo è palese anche solo dando un’occhiata alle produzioni On e Off Broadway degli ultimi anni. Una delle artiste intervistate, commentando quanto sopra, ha detto: “Dover spiegare ogni piccola scelta ci rende sicuramente registe migliori.” Vero, ma è una “menata”.

Se si guarda il numero di premi come il Tony Award, il più importante premio teatrale americano, è incredibile notare la disparità tra uomini e donne. Il Tony Award è stato istituito nel 1947, e attribuisce il premio al miglior regista di Broadway di testi teatrale e al miglior regista di musical ogni anno. Bene: dal 1947 solo 4 donne hanno vinto il premio per miglior regista di musical, 7 per opera teatrale e 2 per miglior testo.

Dando un’occhiata alle stagioni teatrali negli USA – e non solo a New York – si vede chiaramente che esiste un tentativo a ovviare la situazione. Dicono che questo è il “momento delle donne”. In un certo senso, è vero. Molti teatri stanno producendo testi di donne o di artisti “non binary” e “gender fluid”. Speriamo che non sia una moda, o un modo temporaneo per coprire un trend.

Quali sono le storie che ti hanno colpito di più? 

Ho intervistato artiste e donne meravigliose. Alcune sono attiviste sociali e politiche, altre sono da anni impegnate nella lotta alla perequazione. Rachel Chavkin, regista di Hadestown, unico musical On Broadway diretto da una donna in tutta la stagione 2018/2019, è un’ispirazione per la sua incredibile creatività e la sua forza collaborativa. Lauren Gunderson si batte da anni per dare visibilità alle donne e scrive di donne. È l’autrice più prodotta negli USA. Martyna Majok è un esempio di come una donna, di prima generazione Americana (è polacca e si è trasferita con la madre negli USA quando era bambina) grazie a tenacia e forza di volontà possa vincere il Pulitzer. Ha dato voce ai disabili, agli immigrati, a coloro che di solito negli USA non hanno voce.

Che differenza c’è tra lavorare nel teatro negli Stati Uniti e in Italia?

Negli Stati Uniti il teatro è parte integrante della società, un’abitudine e una routine familiare, parte dell’educazione dei bambini sin dalle elementari. Paradossalmente, il teatro è molto più vivo e popolare che non in Italia. Ho lavorato in teatro da sempre e per molti anni prima di andare negli Stati Uniti. In Italia prima di tutto raramente il teatro viene considerato una professione. “Si, ma cosa fai davvero nella vita?” Me lo sono sentito chiedere tante volte. Gli attori sono sottostimati e la stessa formazione degli attori la dice lunga. I teatri nazionali, che hanno la scuola teatrale, sono considerati alla pari delle scuole professionali. Negli USA, regia e recitazione sono materie universitarie legate a una laurea vera e propria in teatro. In Italia, le scuole superiori non hanno teatri. Le università non hanno teatri. Ogni tanto le scuole fanno una “recita di fine anno”, che di solito è una variazione della Natività, o di un testo classico rivisitato e corretto. In ogni caso, la rappresentazione ha solo ed esclusivamente valore extracurricolare, di divertimento e penitenza per i genitori. Non si tende a considerare l’aspetto educativo del teatro. Nelle università qualora ci sia qualche insegnamento legato al teatro, si focalizza sull’aspetto storico, come il teatro greco-latino, Shakespeare, teatro barocco e mai sull’aspetto pratico.

Una delle cose che colpisce nel sistema universitario americano è che Recitazione è uno degli insegnamenti consigliati in molti Liberal Arts programs, indipendentemente dal corso di Laurea prescelto. Fa parte di uno degli “electives” e uno studente ne ha bisogno di un certo numero, che varia dal corso di laurea, per conseguire la laurea. Di fatto, il numero di studenti che sceglie Recitazione 1 come “elective” è altissimo. Si comprende che recitare fa parte della vita, in un modo o nell’altro. Un colloquio di lavoro è un esercizio di recitazione. La contrattazione di qualsiasi cosa è un esercizio di recitazione.

Certo, poi c’è l’aspetto professionale. Come in Italia, esistono sindacati che proteggono gli artisti. Diversamente che in Italia, le possibilità di esercitare la professione sono più ampie, per l’enorme numero di teatri professionali che ci sono ovunque, non solo nelle grandi città. Senza contare che esistono dottorati in tutte le discipline teatrali, che portano poi alla possibilità di poter insegnare all’università.

In sostanza, dove per la maggior parte delle situazioni in Italia il teatro, anche professionale, viene considerato un hobby più o meno serio, negli Stati Uniti è una professione riconosciuta e pagata conseguentemente.

Com’è insegnare teatro negli Stati Uniti? 

Negli Usa esistono vari tipi di università e l’esperienza di insegnamento varia molto a seconda di dove insegni. Esistono le Research 1 Institutions, tipo la Columbia University, Stanford, University of Illinois, Urbana Champaign, tanto per citarne alcune, dove la ricerca è quasi più importante dell’insegnamento. Per cui i docenti hanno un carico minore e più tempo da dedicare alle loro ricerche. Queste università sono anche molto più esigenti nel riconoscere la “tenure”. L’incarico di ruolo dipende principalmente dal successo individuale della ricerca. Esistono poi le Teaching Institutions, che invece sono più dedicate all’insegnamento. I docenti hanno un carico maggiore e meno tempo e denaro da dedicare alla propria ricerca. Ottenere la “tenure”, la conferma a tempo indeterminato è altrettanto complesso, ma il peso dell’insegnamento è più importante. Io ho insegnato in parecchie università e adesso sono alla State University of New York, College of Oneonta. È una Teaching Institution, con il dipartimento di Teatro che ha un’ottima reputazione e ottimi numeri. Insegno Recitazione (tutti i livelli), Theatre for Social Change, Devised Theatre, Movement for the Stage, e Regia (tutto a rotazione). Curo la regia di uno o due spettacoli l’anno.

Devo dire che insegnare mi piace molto e mi permette di sperimentare idee di regia senza avere la pressione del botteghino. Mi piace vedere gli studenti attori crescere. L’aspetto comunitario del teatro in pratica sviluppa una famiglia, con i suoi lati positivi e negativi. È anche vantaggioso avere l’anno diviso in due semestri, in modo tale da poter poi avere lo spazio e il tempo per la ricerca e per regie in teatri professionali.

A che regie stai lavorando?

Ora sto lavorando a quattro regie. La prima è The Wolves, di Sarah DeLappe. Lo spettacolo è stato selezionato in ottobre per partecipare al festival del Kennedy Center a Cape Cod. Si tratta di uno spettacolo che segue le vicende di una squadra di calcio femminile. È, al momento, il testo più prodotto degli Stati Uniti.

Poi ho la regia di Once Upon a Mattress, che debutta ad aprile. Si tratta di un musical che ha debuttato nel 1959 e che è basato sulla fiaba della Principessa sul pisello. La produzione è puntata principalmente sullo spettacolo. A seguire, dirigerò Pericle, di Shakespeare per PRagueShakespeare, a Praga, a luglio. E a ottobre farò la regia di Medea, di Euripide. E sono in contatto per un’altra regia, negli USA, ma per il momento è meglio non dare dettagli !

In un’epoca così legata ai social media il teatro cosa può insegnare?

Uno degli insegnamenti del teatro è di vivere “in the moment”, una variante del carpe diem, se vuoi. “Being in the moment” significa essere presenti a se stessi, agli altri e all’ambiente in qualsiasi momento ed essere pronti a reagire agli stimoli che ci arrivano hic et nunc. Questo è qualcosa che i social media non ti possono dare perché creano un filtro, una maschera, una distanza estetica tra le persone. Se da un lato provocano un dialogo/confronto diretto e spesso senza filtri di tipo sociale, dall’altro la mancanza di confronto diretto, faccia a faccia, rende l’oggetto del dialogo e il dialogo stesso effimero e privo di reali conseguenze umane. Purtroppo questo determina un vero e proprio cambiamento delle persone, in particolare dei giovani. Se noti, è sempre più difficile vedere giovani sostenere una conversazione franca. E si sfugge il contatto visivo, non ci si guarda negli occhi. Si preferisce l’isolamento fisico. Ci si rifugia nel telefono, non per comunicare a voce (cosa per cui il telefono, bontà sua, fu inventato), ma per giocare o postare su social media.

Un altro vantaggio del teatro, è che procura una vera esperienza di comunità, sia per chi fa teatro, che per chi fa parte del pubblico. È un’esperienza che crea una comunità. Il successo di uno spettacolo dipende da ogni singolo contributo di ogni singolo individuo impegnato nella produzione, dalla comparsa con una sola battuta, al protagonista, al direttore di scena a chiunque lavori dietro le quinte. Si impara che bisogna saper contare sugli altri. Per il pubblico, il discorso è diverso. L’aspetto comunitario nasce dall’essere presenti a un evento che in un modo o nell’altro si appella alla nostra umanità. Richiama l’aspetto catartico, vedi il buon vecchio Aristotele. E la catarsi avviene perché come individuo sono mosso da quanto vedo e allo stesso tempo mi rendo conto che non sono l’unico ad avere questa esperienza. La catarsi avviene singolarmente e comunitariamente, come pubblico. Hic et Nunc. Nessun social media può anche solo lontanamente avere lo stesso impatto.

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