Qualche riflessione a 120 anni dalla nascita
Borges, un cristiano non credente
Sciascia definiva lo scrittore argentino «il più grande teologo del nostro tempo, un teologo ateo». Accattoli osservava come in certi versi parlasse a nome dell'umanità che non crede a Cristo ma continua a cercarlo. E anche Luzi s’interrogava sulla teologia dell’autore dell’“Aleph”
A centoventi anni dalla nascita Borges è ancora e sempre attuale. «Questa città… è così orribile che il suo solo esistere e perdurare, sia pure al centro di un deserto segreto, contamina il passato e il futuro e in qualche modo coinvolge gli astri». Così scrive a proposito della città degli immortali. Il personaggio a cui il grande scrittore argentino può più a buon diritto essere accostato è appunto il Joseph Cartaphilus de L’immortale, il primo racconto de L’Aleph. Per Borges lo specchio è il materiale da cui può emergere la verità, come si può vedere nei versi finali di Elogio dell’ombra: «Arrivo al mio centro,/ alla mia algebra, alla mia chiave,/ al mio specchio./ Presto saprò chi sono». Ma in Elogio dell’ombra c’è qualcosa di più, c’è una ansiosa ricerca del divino, un’idea della cultura non come vuota erudizione ma come modo di vivere e di morire in tensione religiosa verso l’oltre: «Questa penombra è lenta e non fa male;/ scorre per un mite pendio/ e assomiglia all’eternità».
Non è un caso che su questo componimento e sulla raccolta che da esso prende il titolo si sia soffermato con particolare attenzione Mario Luzi nei suoi articoli sulla letteratura sudamericana apparsi sul Corriere della Sera e poi raccolti in Cronache dall’altro mondo (Genova, Marietti, 1979). Il poeta fiorentino ha sottolineato in particolare il valore di un componimento come Giovanni I, 14 dove è descritto un Cristo votato all’umano, al creaturale, che ha condiviso in tutto, tranne il peccato, la nostra condizione: «…Sono stato fra loro con stupore e tenerezza./ Per opera di una magia/ nacqui stranamente da un ventre./ Vissi stregato, incarcerato in un corpo/ e nell’umiltà di un’anima./ Ho conosciuto…». Luzi, che non può fare a meno fin dall’inizio di richiamare il racconto I teologi, riflette in particolare sulla assenza di Dio. Quella assenza in Borges è sentita come un’angosciosa scoperta o come un sortilegio? Cosa dire di quella sua teologia in bilico fra problema esistenziale e gioco fantastico? Egli soffre realmente l’assenza di Dio o esprime solo una poetica meraviglia?
Questi gli interrogativi che Luzi, da cristiano quale è, si pone. Né da un teologo né da un credente è mai stata chiaramente formulata in questi termini a Borges una domanda del genere. Il rammarico per la mancata risposta non ci impedisce di esprimere la convinzione che sofferenza e stupore, gioco e angoscia, non siano contrari né si escludano in Borges. Non a caso nella conclusione della sua analisi del canto IV dell’Inferno a proposito degli “spiriti magni” con cui Dante si accompagna, Borges scrive: «Sono forme dell’incipiente sogno di Dante, appena slegate dal sognatore … sono magistrali nell’esercizio della loro arte, e tuttavia si trovano nell’Inferno perché le dimentica Beatrice».
E il punto di arrivo dei Nove saggi danteschi è L’ultimo sorriso di Beatrice dove, prendendo spunto dai versi del Canto XXXI, quello in cui Dante si congeda da Beatrice («Così orai; e quella, sì lontana/ come parea, sorrise e riguardommi;/ poi si tornò all’etterna Fontana»), Borges mostra come l’intero capolavoro dantesco sia stato scritto dal poeta per continuare a illudersi di avere accanto la sua donna anche dopo la morte di lei: «Assente per sempre da Beatrice, solo e forse umiliato, immaginò la scena per immaginare che stava con lei. Sfortunatamente per lui, felicemente per i secoli che lo avrebbero letto, la coscienza che quell’incontro era immaginario deformò la visione. Da qui le circostanze atroci, tanto più infernali, è chiaro, in quanto avvengono nell’Empireo: la scomparsa di Beatrice, il vecchio che ne prende il posto, la brusca elevazione alla Rosa, la fugacità del sorriso e dello sguardo, il volgersi eterno del volto».
Come abbiamo detto, lo specchio è il materiale da cui può emergere la verità. E secondo lo studio psicoanalitico di Didier Anzieu, esso significa per Borges lo strappo dal corpo della madre. Attraverso il motivo dello specchio ovunque nell’opera del grande scrittore argentino ritornano gli archetipi del grembo e del regressus ad uterum. In La ricerca di Averroè è detto chiaramente che Averroè è soltanto Borges che lo pensa. Il senso di quel racconto è da ricercare in Eraclito, una poesia scritta per la morte della madre che è, come dichiara il suo autore, «una variazione involontaria di La ricerca di Averroè». Nella conclusione di quella poesia è detto: «Eraclito non ha ieri né adesso./ È soltanto un artificio che ha sognato/ un uomo grigio sulle rive del Red Cedar,/ un uomo che intesse endecasillabi/ per non pensare tanto a Buenos Aires/ e ai visi amati. Ne manca uno». Il viso che manca è quello della madre, lo specchio in cui guarda Averroè è in relazione con il viso della madre, il suo trauma è l’angoscia di separazione. Non a caso il lutto viene elaborato nelle stesse forme nel racconto e nella poesia.
In occasione della morte di Borges Luigi Accattoli, nella conclusione di La speranza di non morire, ha voluto, non a caso, parafrasare il Cristo in croce osservando giustamente che l’autore vi parla a nome dell’umanità del nostro tempo che non crede a Cristo ma continua a cercarlo: «Non lo vedo/ e insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra». Leonardo Sciascia ha detto che Borges è «il più grande teologo del nostro tempo, un teologo ateo». Se è giusto affermare, come fa Sciascia, che chi dice la verità parla a nome di tutti, non vi è dubbio cheBorges ha colto la verità di un’epoca incredula e che tuttavia non può fare a meno di insistere a interrogarsi su Cristo. Egli è forse uno scrittore non credente ma è certo un cristiano vero. La sua è una teologia che nel momento in cui nega la fede ne afferma l’esigenza insopprimibile. Anche per questo nella sua Ginevra, in occasione del suo funerale, al ricordo della madre protestante e della nonna cattolica, volle un pastore protestante e un prete cattolico.