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L’America inquinata
Il disagio profondo dell'America violenta e corrotta di Kent Anderson, il ritorno dell'avvocato Guerrieri di Gianrico Carofiglio e l'intolleranza e l'estremismo nei Pirenei raccontati da Fernando Aramburu
La strada. Un romanzo duro. Ambientato a Oakland, il posto in cui ci sono più ex galeotti di tutta la California. Dove l’America mette in tutta evidenza la miseria, la violenza, l’assenza di progetti, il capitalismo criminale (droga). È la storia dove Hanson, che ha 38 anni, si trova nel corso dell’accademia di polizia. In mezzo a ventenni o a graduati, coetanei o poco più, che riassumono così come si fa a mettere le cose a posto: «Chiunque oppone resistenza a un pubblico ufficiale è capace di ucciderlo; il distintivo e la pistola non significano niente per lui, perché non ha niente da perdere; se lo dichiarate in arresto vi inveisce contro e se ne va. Quando fate per ammanettarlo, opporrà resistenza con la forza e vi ucciderà, con la vostra pistola se non ne ha una sua…vive seguendo la legge della giungla… lui non è come voi, non credete a quelle fandonie sinistroidi secondo cui siamo tutti uguali. Lui è un animale diverso da voi». Ma Hanson usa il cervello. Ha scelto di pattugliare, dopo essersi laureato in lettere, era stato sergente delle forze speciali in Vietnam e si era guadagnato due stelle di bronzo.
L’autore, Kent Anderson, assomiglia alla sua creatura: ex militare e docente universitario. Questi intrecci di varia umanità sull’asfalto delle periferie hanno come titolo Sole verde, (Nutrimenti editore, 344 pagine, 19 Euro). Hanson potrebbe tornare all’università per il dottorato, ma non ha voglia. Oppure? Visto che non c’era un’altra guerra, la prospettiva era un ufficetto dove stare fermi e guadagnare poco. No, meglio la strada. Un esempio di come lui, che in Vietnam leggeva le poesie di Yeat, gestisce il caos urbano. Sono due le due e mezza di notte, in una squallida area commerciale con negozi in fallimento o chiusi si raduna una quindicina di auto con tutte le radio sintonizzate su un canale che trasmette le canzoni di Donna Summer. Gli abitanti protestano e allertano la centrale di polizia: c’è una rissa. Non è vero, ma almeno c’è la speranza che qualche sbirro arrivi. E arriva lui da solo. Fa in modo di essere notato, ma non cambia niente. Allora salta sul tetto della sua auto e si sbraccia chiedendo attenzione: «Ehi, ragazzi, ho da dirvi una cosa». I giovani lo ascoltano: non hanno mai visto un agente a fare quella cosa. E lui, che ogni tanto commenta una canzone, si rivolge loro chiamandoli signori e signore, spiega che se non abbassano le radio arrivano tre o quattro pattuglie, ed è peggio. E poi: «Vi sarei grato se ve ne andaste tutti a casa». Missione (insolita) compiuta. I colleghi sanno che Hanson ha un caratteraccio e sa essere ironico (di fronte agli stereotipi e alla superiorità muscolare come unica panacea). I superiori di mente mediocre lo rimproverano di fare dell’assistenza sociale. Il rischio, per lui, non è stavolta l’attacco di un vietcong, ma l’ambiente marcio di un’America molto volgare, che ti inquina dentro.
Il processo. Non sono pochi gli scrittori che riafferrano il primo personaggio cui hanno dato vita. Gianrico Carofiglio, narratore oggi tra i più noti grazie anche alle sue comparsate televisive, rimette in pista l’avvocato Guido Guerrieri, barese come lui. Nel suo studio si presenza una donna, sua vecchia conoscenza, disperata perché il figlio ventenne è stato processato ed è in carcere per l’accusa di omicidio dopo un litigio a causa della droga. Lo aveva difeso in primo grado un legale di buon mestiere, ma male in arnese come salute, tanto è vero che è morto prima dell’appello. Guerrieri accetta e dirige i suoi collaboratori nella ricostruzione della vicenda. Il romanzo è intitolato La misura del tempo (Einaudi, 281 pagine, 18 Euro) e non è una sequela di pedinamenti, inciampi, sparatorie e altri arnesi della crime-fiction. È un legal thriller nel vero senso del termine. Coerentemente a quel che pensa l’autore, ossia che bisogna scrivere le cose che si conoscono bene (se la trama è in un contesto di realtà), Carofiglio fa tesoro della sua esperienza pluriennale di magistrato della Dia. Abituato dunque a interrogatori, a carceri, alla psicologia degli imputati. E sempre lontano dalla retorica del buono contro il cattivo, attento ai piccoli errori. Ci sono tante zone d’ombra su cui indagare. E spesso è lì che si trova la chiave per aprire una porta, o più porte. L’autore più volte è intervenuto in tv reclamando l’esattezza lessicale e procedurale. Si è più volte indignato su come siano scritte male certe leggi. A me è venuto in mente un passo di Leonardo Sciascia, quando un professore di liceo dice al commissario di polizia: «Vede, l’italiano non è solo l’italiano, lo scrivere bene, ma soprattutto è il ragionare». In questo libro il suo avvocato Guerrieri si stacca dal pressapochismo e abbraccia in ogni sua mossa quella logica, anche processuale, che deve escludere buche, manchevolezze, distrazioni. Talvolta lo fa in maniera troppo didattica. Anche se oggi, per fortuna, non si grida allo scandalo se nel perpetuarsi dell’azione s’infilano paragrafi che a prima vista apparterrebbero alla saggistica. Scritto in prima persona, il romanzo non mira a una prosa forzatamente “alta” – o vuoi: barocca e/o psicologistica – per fare bella figura. Ci sono passaggi personali, incentrati sull’umore del protagonista, insomma sull’uomo che indaga prima ancora che sui meccanismi di indagine. Un esempio a pag. 114: «Qualcuno una volta mi ha detto che le cose più belle da ricordare sono i sogni che avevi da ragazzo, soprattutto se, almeno in parte, li hai realizzati. Risuonano nella nota struggente del passato e possiedono l’esaltazione indistinta del futuro». È l’impasto di fatti ed emozioni, a mio avviso, a rendere meno anemico un romanzo. Ovviamente in altri autori c’è più “sang”, sangue detto alla napoletana. Per esempio in quelli di Maurizio De Giovanni (sempre Einaudi), che peraltro non indulge mai al pressapochismo.
Rancori. Tra Spagna e Francia, a cavallo dei Pirenei c’è la comunità autonoma basca (Euskal Herria, letteralmente popolo dei baschi), dove il movimento nazionalista Eta ha sparso morte, insinuandosi nella società come un cuneo avvelenato. Fernando Aramburu, è nato a San Sebastian, zona basca, è uno dei più importanti narratori spagnoli. Con Dopo le fiamme (Guanda, 247 pagine, 17 Euro) descrive il clima di paura e di grandi e piccole violenze in quella terra dove ognuno da un giorno all’altro, magari per un solo sgarbo, si sente straniero e possibile bersaglio di lanci di pietre, revolverate, attacchi incendiari. Aramburu entra nelle case dove ci sono le tracce dell’intolleranza e dell’estremismo. Per le strade e nelle piazze sovente sventola la bandiera autonomista (ikurrina). Ogni dramma compone un racconto e ogni racconto è un anello della catena di sangue e di diffidenza. Inigo ha quattordici anni e continua a insistere perché la madre, vedova, gli racconti la verità su suo padre José Manuel (aita è papà, nell’idioma basco). La donna non può più tergiversare. Quando era ancora incinta, due giovani hanno aperto il fuoco contro la loro macchina, che stava uscendo dal garage. Inigo appoggia la testa sul grembo della madre, che racconta: « Una cosa che non posso scordare è il fischio delle pallottole. Non finiva mai. Pensavo: Dio mio, che finisca, ormai, l’avete ucciso, che volete di più? In realtà la parola fischio non è esatta. Dopo quattordici anni, ho ancora quel rumore dentro l’orecchio, ma non so come spiegarlo». Inigo frequenta i coetanei, ma è cosa normale che talvolta venga allontanato dagli irriducibili. Lo stesso dramma lo vive una ragazza che per caso, davanti a uno sportello bancomat, è stata colpita dalle schegge di un’autobomba. Tornerà a casa dopo mesi di ospedale: una gamba funziona, l’altra no. «Che me ne faccio di questa?» si chiede, spostandosi con le stampelle, accanto a genitori apprensivi, che la scrutano minuto dopo minuto. Un’intera famiglia, che abita accanto, decide di lasciare il paese. In passato furono in tanti a rifugiarsi in Francia.