A che serve il teatro?
Le parole per dirlo
In Francia, il presidente Macron interviene in difesa della cultura e della lingua francese, considerate centrali nelle politiche di inclusione. E in Italia? Da noi questi temi finiscono sempre in ultimo piano, all'interno del confronto politico. Malgrado le riforme Franceschini...
C’è stato un episodio della vita politica europea che è stato ignorato dalle cronache giornalistiche italiane, evidentemente perché giudicato irrilevante rispetto ai problemi dell’Unione: e che invece può suscitare una riflessione sullo stato delle nostre attività culturali. Recentemente un convegno sulla francofonia dell’Università di Torino si è richiamato a un discorso del Presidente Macron pronunciato l’anno scorso davanti ai membri dell’Académie Française. Il titolo era Discours pour la stratégie sur la langue française (Discorso sulla strategia per la lingua francese). L’Académie, fondata nel 1635 dal Cardinale di Richelieu, non è un’accademia come i Lincei o la Crusca in Italia ma è l’istituzione che non soltanto “difende e illustra la lingua francese” (parafrasando il titolo della famosa opera di Du Bellay che nel XVI secolo inaugura l‘attenzione alla storia della lingua); ma glorifica la cultura in quanto braccio armato della Nazione, riconoscendone la funzione promotrice di prestigio e di supremazia intellettuale; leggi recenti di pochi anni fa le conferiscono l’autorità di controllare la correttezza della lingua usata nei documenti ufficiali della pubblica amministrazione; ancora, gli accademici sono chiamati “les Immortels, gli Immortali” e la cerimonia di accoglienza dei nuovi membri (i “récipiendaires”) è un rito fastoso di antiche memorie monarchiche.
Le nostre accademie, prestigiose quanto si vuole, persino di qualche decennio più antiche dell’Académie (si dice che Richelieu abbia fondato l’Académie ispirandosi alla Crusca nata nel 1584), non sono mai state così organiche allo stato: certamente per debolezza o addirittura per inesistenza dello Stato (all’epoca della fondazione i Lincei erano nello Stato Pontificio e la Crusca nel Granducato di Toscana) ma anche per scelta ideologica. Tanto che quando Mussolini ha voluto trasformare i Lincei in Accademia d’Italia chiedendo agli accademici il giuramento di fedeltà al fascismo è successo il finimondo, con alcuni membri autorevoli del consesso che si sono rifiutati e dopo la guerra, con soddisfazione generale, i Lincei hanno ripreso l’antico nome e riconquistato l’autonomia dal potere politico. Che è certamente un valore prezioso, rivendicato fin dai tempi di Vittorio Alfieri in Del principe e delle lettere, come indispensabile alla buona letteratura; mentre Voltaire, dall’altra parte delle Alpi, sosteneva nel Siècle de Louis XIV che lo sviluppo delle arti e delle lettere è assicurato invece all’ombra di grandi principi illuminati e, nella storia del mondo, si contano soltanto quattro epoche di glorioso splendore culturale, il secolo di Pericle, il secolo di Augusto, il secolo di Leone X e, appunto, quello di Luigi XIV; tutto il resto è decadenza e oscurantismo. Storie diverse, dunque, e non è mia intenzione stabilire adesso dove sta la ragione.
Mi sembra più interessante, invece, sottolineare l’importanza che ha la cultura per il potere politico francese. Il Presidente della Repubblica, che laggiù è sentito senza ombra di dubbio come l’erede legittimo di quel Luigi XIII che rilasciò all’Académie le patenti fondative, ha tenuto un discorso di più di un’ora davanti agli Immortels e a non pochi ministri del suo governo per illustrare la volontà di rilanciare un’azione intensa ed efficace in favore della diffusione della lingua francese nel mondo, sostenendo le istituzioni che hanno il compito di illustrarne la bellezza e l’efficacia espressiva oltre che quello di insegnare la lingua agli stranieri. Il discorso è stato di una competenza sbalorditiva, una vera lezione di storia della lingua ricca di citazioni e di considerazioni tutte pertinenti e ineccepibili: un discorso evidentemente preparato da specialisti della materia ma che altrettanto evidentemente il Presidente ha fatto suo con una passione sincera per il tema. E soprattutto con la convinzione che la questione della lingua sia decisiva per rafforzare l’identità culturale di una nazione forte, moderna, inclusiva e solidale. Una delle parole più ricorrenti in quel discorso, infatti, è l’aggettivo “partagée” che potremmo tradurre con una parola di moda in Italia, “condivisa”: usata a proposito della lingua soprattutto parlata e vivificata da cittadini del mondo non necessariamente francesi doc; i quali però vogliono impadronirsi della lingua che fu di Racine e che oggi appartiene ai tanti abitanti delle periferie provenienti dalle ex colonie, dalle nazioni arabe e da altre meno fortunate contrade del pianeta. Un discorso quindi per nulla “accademico” e che probabilmente sarà dispiaciuto a non pochi dei quaranta “immortels” presenti; ma che ha il merito di proiettare la questione della lingua nel futuro come strumento di dialogo e di integrazione in Europa e nel mondo; non contro ma accanto all’inglese, per rispondere alle esigenze diverse della vita contemporanea.
Macron ha citato il cinema e soprattutto il teatro come strumenti importanti per allargare nel mondo la conoscenza del francese ed è a questo punto del suo discorso che a me, teatrante italiano abituato all’indifferenza dei politici in materia, è venuta voglia di scrivere qualche riflessione in proposito perché il teatro è il luogo in cui la parola si fa parlata (anche se io preferisco dire pronunciata per evitare l’ambiguità di considerare efficace soltanto “il parlare come si magna”, ossessione di tanto spettacolo nostrano). E mi ha punto anche la tentazione di pensare che forse è arrivato il tempo di sperare in una salutare rinascita dell’attenzione statale nei confronti della lingua italiana e quindi del teatro. È magari difficile sperare, noi Italian, in un’occasione istituzionale altrettanto solenne per celebrare la nostra lingua. Ma forse il ritorno di Dario Franceschini alla guida del Ministero dei beni e delle attività culturali potrebbe significare qualcosa: lo si è già visto per i beni culturali e vorrei anche ricordare che, nel campo delle attività culturali, si tratta del Ministro che nel 2015 ha realizzato dopo venticinque anni la più radicale riforma dello spettacolo dal vivo. Riforma anche molto contestata, non c’è dubbio, perché nel chiedere al teatro pubblico di aumentare la propria attività produttiva, ha penalizzato le imprese piccole e più rivolte alla sperimentazione, in difficoltà a migliorare i parametri quantitativi. Ma ha introdotto un concetto fondamentale per la nostra coscienza collettiva: il teatro è uno strumento fondamentale di crescita civile della nazione e l’attività del teatro pubblico che la Repubblica sostiene si deve esercitare soprattutto attraverso i Teatri Nazionali e i Teatri di Rilevante Interesse Culturale. Scusate se è poco, ma neanche Pirandello era riuscito a strappare a Mussolini la creazione del Teatro Nazionale d’Italia.
E così nel 2015 sono nati sette teatri nazionali. Sono troppi? E qui torniamo alla Francia e al discorso di Macron. In Francia, nonostante quel po’ po’ di storia nazionale e di politica culturale monarchica, i teatri nazionali sono cinque, uno dei quali chiamato a occuparsi di sola danza (Chaillot); gli altri di drammaturgia nazionale, di dialogo con l’Europa, di repertorio contemporaneo. Da noi non potevano essere meno di sette, forse, considerando che la nostra storia è fatta da una decina di grandi capitali che hanno nei secoli irradiato le arti, le lettere e soprattutto il teatro, in tutta Europa. Se mai il problema è che la riforma, per le note vicende della nostra storia politica recente, è passata di mano trovando attuazione nelle sue norme quantitative, tante giornate recitative, tanti contributi, tanti contratti di scrittura; ma non nello spirito che l’ha ispirata all’origine e che ha fatto scegliere le definizioni di teatri nazionali e teatri di rilevante interesse culturale. Per fare che cosa esiste il teatro pubblico? Cosa distingue un cartellone dalle Alpi alle Piramidi? Da quanto scritto fino qua, spero sia chiaro che non è soltanto per mia personale convinzione che i Teatri Nazionali si debbano soprattutto occupare di lingua e di letteratura italiana per il palcoscenico. Ma in Italia questa preoccupazione non è certamente prioritaria: i sette teatri nazionali percorrono più o meno gli stessi itinerari programmatici, spesso incontrandosi nei grandi impegni coproduttivi.
Macron chiede invece al teatro di accompagnare la sua strategia per la lingua francese consapevole che quella è la missione dei Teatri Nazionali, della Comédie Française addirittura dal 1680; perché un Ministro della Repubblica Italiana che ha indicato un destino nazionale ai suoi migliori teatri non dovrebbe pretendere altrettanto? Macron ricorda anche la maledizione che il francese si porta dietro come lingua degli oppressi per tanti cittadini delle ex colonie e chiede di riscattarla attraverso i meriti della cultura e del progresso contemporaneo. La lingua italiana non ha memorie coloniali da riscattare ma è ancora apprezzata dopo secoli proprio grazie alla cultura, nel linguaggio del melodramma e delle indicazioni dinamiche degli spartiti, in quelli della moda, dell’enogastronomia, del cinema, dello sport. L’alleanza con il teatro sarebbe fondamentale in questa battaglia e il teatro, incoraggiato da una politica strategicamente consapevole del valore della lingua, potrebbe difendere il grande patrimonio drammaturgico e letterario della nostra storia, oggi colpevolmente assente dai cartelloni (con l’eccezione di alcuni autori e alcuni titoli considerati di richiamo commerciale); ma potrebbe anche accompagnare l’evoluzione contemporanea dell’italiano pronunciato con iniziative drammaturgiche mirate; potrebbe incoraggiare i migliori autori di prosa a misurarsi con il lavoro di palcoscenico; ma soprattutto instaurare, nei teatri pubblici la figura del dramaturg per completare virtuosamente il lavoro creativo negli allestimenti, ormai soltanto preoccupati di ottimizzare i costi comprimendo i periodi di prova. Certo, occorrerebbero indirizzi applicativi e un monitoraggio sul territorio: in questo l’esperienza francese avrebbe molto da insegnare.
Buon lavoro onorevole Franceschini. La sua riforma potrebbe definitivamente dimostrare di essere per il nostro teatro l’occasione storica da non sprecare.