A proposito de "La seconda porta"
I corpi che parlano
Raul Montanari, nel suo nuovo romanzo, scava nei rapporti problematici tra un pubblicitario e un immigrato clandestino. Il manifestarsi di mondi così lontani trae forza dalla capacità di comunicare dei rispettivi corpi
La seconda porta di Raul Montanari (Baldini & Castoldi) è un noir atipico – come lo sono spesso i romanzi di questo scrittore milanese bravo e prolifico, che ha pubblicato una ventina di libri, fra romanzi, raccolte di racconti, poesie, e di cui altre volte ci siamo occupati. Un autore che si muove all’incrocio di alcuni generi: noir psicologico-sentimentale, romanzo di formazione, thriller esistenziale/poliziesco alla Patricia Highsmith ecc.
Stavolta l’intreccio che allestisce Montanari attorno al suo eroe – un pubblicitario di successo, colto, ironico, massimo esperto di “campagne sociali”, che forse un domani scriverà un romanzo sulla propria esperienza professionale, alter-ego più o meno contraffatto dell’autore – è una vicenda che sembra sempre sul punto di colorarsi di nero, cioè di produrre almeno un omicidio, ma resta a lungo in una zona intermedia, nella zona franca – per così dire – della casa milanese di Milo Molteni, dove si consuma una parte considerevole della storia. Milo è una sorta di guru della comunicazione, molto stimato nel giro della pubblicità anche umanamente, moralmente, per l’aspetto etico delle sue campagne, benché lui sia un tipo dallo spirito a volte sarcastico e perfino cinico: «“Mi spiace per i tuoi, dissi, erano due care persone”: ci sarei passato sopra volentieri con un trattore, a quei due, ma non era il caso di spiegarlo a lui». Ecco, questo il tono della voce narrante, soprattutto nella parte iniziale. Poi via via meno scanzonata e disinvolta andando avanti nella narrazione, fra visite della polizia, minacce di morte, rivelazioni di vendette trasversali da parte di sanguinarie organizzazioni internazionali ecc.
Sul fronte sentimentale, Milo è reduce da una difficoltosa convivenza con una donna ancora presente nella sua vita, la sua ex moglie, e ha iniziato da poco una relazione con una giovane architetta che deve ristrutturargli la casa, compresa la mansarda. Insomma un bel giorno questo professionista maturo, di successo, che conduce una vita abbastanza tranquilla, si trova a ospitare clandestinamente, nella mansarda all’ultimo piano, un giovane migrante in fuga, Adam, che si è intrufolato in casa passando attraverso una porticina segreta, durante certi lavori di manutenzione del palazzo. Adam è un egiziano molto bello verso cui il protagonista prova subito un’attrazione estetica, sensuale, mista a un sentimento paterno di protezione. La verità sulla condizione di fuggiasco del giovane mediorientale trapela a poco a poco, fra smentite, aggiustamenti, ritrattazioni. Scopriamo che Adam è uno scafista per necessità, per così dire; lo ha fatto, quel mestiere spietato, infamante, per pagarsi la traversata nel Mediterraneo. È stato anche costretto a gettare in mare due migranti impazziti, che si agitavano e rischiavano di fare affondare l’imbarcazione. Suo fratello maggiore, Tariq, è invece un vero criminale; ha commesso omicidi spietati per vendetta e altri crimini, idolatrato e temuto dal ragazzo, e oscuramente paventato per riflesso anche dal narratore. Lo vediamo materialmente in scena per poco, verso i tre quarti del romanzo, nella mansarda semibuia: – “Feci due o tre passi avanti. Adam era seduto sul materasso ma io avevo occhi solo per l’altro, il ragazzo tarchiato e muscoloso che stava in mezzo alla stanza. La sua faccia dura era tagliata a metà fra luce e ombra”. Ma il giovane era già stato ampiamente evocato in precedenza, nelle parole evasive reticenti criptiche di Adam, nei ragionamenti di Milo, è già un mito (sinistro, dannato) nella narrazione. Egli è venuto a riprendersi il fratello, ma Milo cerca di dissuaderlo, lo affronta, i due si scambiano insulti livorosi, Tariq sta per aggredirlo, ma Adam inaspettatamente prende le sue difese e lo blocca. Poi la vicenda prenderà una piega inaspettata, che non riveliamo.
Soffermiamoci piuttosto ancora sulla convivenza del maturo professionista e del ragazzo semiclandestino, durante la quale i due si studiano, si raccontano reciprocamente, fra ellissi, velati tentativi di seduzione, sospetti, diffidenze. Il giovane è omosessuale, Milo no, a parte qualche episodio giovanile, legato ai riti virili della tarda adolescenza, di cui rende conto in vividi flashback; comunque si sente attratto da quel giovane misterioso e bellissimo, dal profilo di un Apollo, che vorrebbe anche utilizzare in qualche sua campagna pubblicitaria. Questa reciproca esplorazione di corpi, di anime, di culture nell’ambiente accidentato e ombroso della mansarda o nell’appartamento rappresentano il fulcro del romanzo, che vive anche d’altro evidentemente; della quotidianità lavorativa in agenzia, con un pugno di colleghi giovani e ambiziosi, e un socio spregiudicato, che non gli risparmia prediche utilitariste e ciniche, chiamato chissà quanto casualmente Carminati. C’è poi la storia sentimentale con la giovane architetta, un personaggio vulnerabile, emotivo, affetto da una lieve epilessia che a tratti la impietrisce. Magistrali come sempre nei libri di Raul Montanari le descrizioni del sesso, di una accentuata fisicità, ma sempre impastate con qualcos’altro, frammenti di ricordi, variegato materiale onirico.
Concludendo: La seconda porta – convincente thriller psicologico-poliziesco, apologo etnico-morale sulla difficoltà di mettere in pratica i principi umanitari, – trova forse i suoi momenti più forti, più intensi, proprio nell’esplorazione dei corpi, maschili e femminili, bianchi e neri, giovani e meno giovani, nell’ambigua imprevedibile declinazione del desiderio.
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Accanto al titolo: Pablo Picasso, “Busto di donna con sombrero”