A proposito di "Ologramma"
Variazioni Mariani
La pianista Maria Gabriella Mariani ha scritto un libro che sta tra narrativa e musica e assume una funzione auto-terapeutica. Alla ricerca di una via d'uscita dalle nevrosi creative personali
Difficile se non impossibile definire Ologramma di Maria Gabriella Mariani (Guida editori) che, pur recando la dicitura “romanzo” e un sottotitolo “Sette vite per non morire” che lascerebbe intendere la sua appartenenza al genere noir o western, non può essere ascritta alla narrativa tradizionalmente intesa. Si tratta, a ben guardare, di un’autoanalisi che l’autrice, personalità poliedrica e versatile, compie su sé stessa con un intento dichiaratamente terapeutico, quello di liberarsi dall’ansia che l’attanaglia e che spesso genera veri e propri attacchi di panico: tachicardia, difficoltà di respirazione e deglutizione, secchezza delle fauci o, all’opposto, abbondante salivazione. Accanto, però, alla ricerca di una terapia efficace e a breve termine, c’è la volontà, neppure troppo dissimulata, di risalire all’origine del problema e di procedere alla riconquista di sé stessa, dissociata, priva di stimoli e di entusiasmi e consapevole dell’insignificanza del vivere.
E per fare ciò, l’autrice, da compositrice e pianista di fama internazionale, ricorre ad alcune variazioni sul tema; senza scomodare J. S. Bach e le sue famose Variazioni Goldberg, vale la pena ricordare che anche la Mariani aveva composto nel 2014 Ologramma, in cui frammenti, temi, idee e percezioni si espandono in una musica meravigliosa e avvolgente. Servendosi delle parole come se fossero suoni e disponendole su un ordito sonoro e cromatico, Maria Gabriella Mariani crea una miscellanea di storie diverse che si riconoscono nel minimo comun denominatore della frantumazione dell’io. I vari personaggi non sono altro che emanazioni dell’autrice e, come i personaggi di Pirandello nei cui confronti grande è il debito della Mariani, essi agiscono e si osservano mentre agiscono, sono, cioè, attori e spettatori al tempo stesso. Basti pensare a Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila per rendersi conto della frantumazione e della dispersione dell’io, o per rimanere nell’ambito più specifico del teatro alla trilogia metateatrale, di cui all’interno del testo si possono rintracciare due titoli: Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo.
Nell’ampio, ricco e articolato bagaglio culturale della Mariani figurano insieme con Pirandello alcuni letterati e poeti come Francesco Petrarca e Torquato Tasso, che legittimano l’appellativo di «umanista del terzo millennio» attribuitole da un suo esegeta; dal primo, l’autrice mutua l’indolenza o accidia e la tendenza a vivere appartata: «…restare in un’anticamera ad aspettare che la vita si compia” dal secondo, in contraddizione solo apparente con quanto detto prima, l’invito a godere dei piaceri della vita: “s’ei piace ei lice” (cfr. l’Aminta, il coro dell’età dell’oro), che ai giorni nostri in una società dominata dall’utile e dal profitto diventa: “s’ei rende ei piace».
Nell’analizzare il proprio disagio interiore, che si riflette come in una lunga teoria di specchi contrapposti nei tanti personaggi da lei stessa germinati, si rilevano riferimenti espliciti al contesto e alla sua città natia, Napoli, che rispetto ai suoi ricordi d’infanzia ha cambiato pelle e umanità (mi riferisco al risanamento urbanistico e alla trasformazione della vecchia nobiltà nella nuova borghesia insensibile e indifferente). Non si salva neppure la vita di provincia con i suoi ritmi più lenti e compassati ma non per questo meno alienanti. Inoltre affiorano e acquistano peso alcune riflessioni di carattere culturale e filosofico su libertà e indipendenza – «l’indipendenza è una conquista quantitativa, la libertà è un traguardo qualitativo» –, sullo scorrere inesorabile del tempo e sulla paura della morte, che non risparmia nessuno e che a poco a poco si mangia l’anima, tanto da aver indotto Giovanni Pascoli ad affermare – «Non esser mai! non esser mai! più nulla, // ma meno morte che non esser più» – (L’ultimo viaggio di Ulisse, XXIV canto. Poemi conviviali). Né mancano accenni sulla contrapposizione tra progresso e sviluppo, concetto quest’ultimo caro a Pier Paolo Pasolini secondo cui a uno sviluppo di carattere scientifico e tecnologico non ha corrisposto, nella società occidentale, un adeguato progresso morale, l’unico degno di una società veramente evoluta.
Il linguaggio utilizzato dalla Mariani è chiaro, efficace ed elegante, anche quando si cimenta con la parte oscura di noi stessi, con i fantasmi del nostro subconscio, ed è impreziosito dai contributi delle arti sorelle, la pittura e soprattutto la musica. Le parole sono il frutto di una ricerca paziente, certosina addirittura maniacale che consenta loro di comunicare idee, suoni, colori ed emozioni e che nasce come un’esigenza indifferibile dell’autrice il cui desiderio, non diversamente da quello di tutti gli artisti, è dare una forma all’opera e alla vita. Impresa sempre più problematica e ardua ora che la fretta, la diffusione di Internet e dei social, la crisi dei valori e il crollo delle ideologie ci hanno rubato la nostra identità, spingendoci verso una vita virtuale, privandoci della pietà, unica vera virtù, come ha scritto Ugo Foscolo (Lettera da Ventimiglia, dallo Jacopo Ortis) e persino del nome – in Ologramma due personaggi sono indicati, come ne Il processo di F. Kafka, con semplici lettere dell’alfabeto (K e R) mentre nella vita real/virtuale i nomi di battesimo sono sostituiti da nickname.
A livello strutturale l’opera comprende cinque parti, ognuna delle quali, dopo una breve introduzione, si divide in cinque paragrafi. Si alternano monologhi interiori – per i quali a livello tipografico si preferisce il corsivo – e dialoghi, questi ultimi soprattutto nella parte iniziale, quando l’autrice mette in scena Ennio, un pianista, indolente e autoironico, in possesso, cioè, di quella saggezza superiore in grado di fare i conti con sé stessa. Alla fine la Mariani inserisce delle conclusioni che sembrano delle note di regia in cui si rivolge a sé stessa, ai suoi personaggi e ai lettori, e io vorrei concludere queste mie osservazioni riportando un brano delle conclusioni: «La mia composizione si è esaurita, non serve a nulla tenerla ancora in piedi. I miei personaggi sono andati a dormire, ognuno a suo modo, con la sua variazione, con il suo brandello di vita. Eppure vorrei ancora trattenerla tra le mani, prima di suonare l’ultimo accordo».