Giuliano Capecelatro
A proposito de “La pacchia”

La pacchia di Soumaila

Bianca Stancanelli racconta la vita di Soumaila Sacko «nato in Mali, ucciso in Italia»: nella vicenda drammatica di un uomo la parabola di un Paese alla deriva morale. Dove la "pacchia" è quella di chi sfrutta il nuovo schiavismo

Folgorante l’avvio: «Scrivo di un uomo che non esiste più, di un luogo che non esiste più, di un’ingiustizia che dura». In meno di due righe Bianca Stancanelli condensa icasticamente una storia atroce, crudele, assurda. Se non fosse che ha per teatro l’Italia del sovranismo; del criptofascismo e fascismo tout court che rialza la testa sanguinaria; dell’idolatria dell’uomo con le palle, della gioiosa apologia dell’uso della forza e delle armi in nome di un’equivoca sicurezza. Meglio, più rassicurante, l’impiego di armi e forza, se contro chi ha la pelle di un altro colore.

Di un altro colore aveva la pelle Soumaila Sacko. Ventinove anni, approdato in Italia dal Mali. Solita trafila: fuga dal proprio paese, una lunga marcia, imbarco a Tripoli. Infine l’Italia: il sogno di una sistemazione, di una normalità mai goduta. In Puglia, poi in Calabria, nella piana di Gioia Tauro. Terra fertile di agrumi, da decenni promessa ad un’industrializzazione rimasta una chimera. Tutto cancellato da una fucilata. Che lo colpisce alla testa, gli inonda il cranio di frammenti d’osso, lo espunge dal consesso dei vivi. Esplosa da un uomo comodamente seduto, che si preoccupa solo di prendere bene la mira, come se fosse al Luna Park, e non sprecare i 24 centesimi che gli costa una pallottola.

È il 2 giugno 2018, la Festa della Repubblica. Ognuno, evidentemente, la festeggia a suo modo. Soumaila è in un cantiere abbandonato, una fornace sequestrata, con due compagni; vuole procurarsi delle lamiere per costruire una baracca che non sia facile preda del fuoco. Gli incendi hanno già compiuto, compiono spesso devastazioni mortali tra gli alloggi precari dei migranti. Non ne ha bisogno per sé, lui vive in una tenda, ma desidera aiutare gli altri.

L’assassino spara per difendere una terra di nessuno; spara per riaffermare un astratto concetto di proprietà rispetto al quale quel ragazzo, ai suoi occhi, non è che un ladro. Spara perché nella sua mente, come in quella di tanti, è giusto che sia così: la Proprietà va salvaguardata; poco importa se debba scorrere del sangue, se una vita umana possa finir soffocata. Un ministro di quella stessa Repubblica, a capo del dicastero dell’Interno, ha fatto del concetto di sicurezza il suo cavallo di battaglia in una diuturna campagna elettorale. E da mesi, sempre sventolando la bandiera della sicurezza, si dedica ad un esercizio monomaniaco, ritmando ad ogni passo, per l’estasi riottosa dei suoi fan, lo slogan: «La pacchia è finita».

La pacchia si riassume nella vicenda di Soumaila e di migliaia di altre persone giunte dal mare; lui è sbarcato quattro anni prima di quel 2 giugno. Una diaspora infinita che produce infinite storie analoghe. Traversate fortunose, spesso tragiche; sistemazioni provvisorie che restano tali per anni, l’attesa di un permesso di soggiorno; che a Soumaila viene negato in prima istanza, poi concesso a tempo determinato, da rinnovare ogni sei mesi, in attesa che si completi l’istruttoria.

Nel regno della pacchia si incammina Stancanelli. E ricostruisce meticolosamente, quinta dopo quinta, lo scenario in cui si inquadra l’omicidio.  Per mettere a nudo, destrutturare sapientemente quel concetto che manda in visibilio e fomenta legioni di frequentatori di social, di viaggiatori di internet, pronti ad entusiastici like non appena uno slogan confermi e conforti le loro pulsioni. Con antifrasi polemica, una sfida a un’opinione tanto diffusa, la pacchia dà il titolo al suo lavoro (La pacchia, vita di Soumaila Sacko nato in Mali, ucciso in Italia; Zolfo editore, pagg. 176).

Non è la prima volta che Stancanelli si interessa di emarginazione, di diseredati.  Ha scritto testi esemplari (uno per tutti: il bellissimo La vergogna e la fortuna. Storie di Rom). Nei suoi racconti una sperimentata qualità narrativa, intrisa di impegno e passione civile che richiamano la lezione di Sciascia, si intreccia con le modalità dell’inchiesta giornalistica condotta con rigore. Non propone santini da crociata manichea, immagini dolenti di vinti della Storia, di vittime su cui spargere qualche lacrimuccia di autoassoluzione. Le persone di cui si occupa sono esseri umani, fragili e fallibili come tutti gli esseri umani.

Per gradi, un fatto via l’altro, la pacchia muta natura. Si rovescia nel suo contrario. La Piana ha bisogno di braccia, dei niri o nigri o nivuri; ben vengano le torme di immigrati: dal Mali, come Soumalia, e sono tantissimi, dal Burkina Faso, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dal Senegal. Che vengono tenuti sotto il tallone di ferro di una normativa vessatoria, di una burocrazia che è un interminabile percorso ad ostacoli, quasi un ricatto che volteggia sulle loro teste. Nel contesto generale di un’Europa che non è capace di afferrare la portata storica di queste migrazioni e fa orecchie da mercante, vagheggiando soluzioni che sono sempre di là da venire.

Abitano, i braccianti neri, «in casolari abbandonati, edifici diroccati dove si dorme per terra, non c’è acqua né luce, servizi igienici neanche a parlarne». E ancora, capannoni dismessi, tendopoli, dove «non ci sono neppure abbastanza servizi igienici per tutti”. Lavorano, spesso in nero, otto, dieci ore. Per paghe da fame, da cui devono spuntare la tangente da passare al caporale. Ma la Piana non può, non vuole farne a meno. Sa pure soltanto per quei sei mesi in cui si concentra l’unica ricchezza locale: gli agrumi; il 31% della produzione italiana di arance, il 69% di quella di clementine. E i niri arrivano, per godere di tanta pacchia.

Che c’è, indubbiamente, c’è. Perché sulla Piana piovono soldi. E la Gdo, la Grande distribuzione organizzata, fa il bello e il cattivo tempo, imponendo prezzi stracciatissimi. Quella terra «è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata e i nodi irrisolti della questione meridionale produce i suoi frutti più nefasti», è scritto in Terraingiusta, “Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri in agricoltura”, opera di Medu (Medici per i diritti umani), citata dall’autrice.

I soldi piovono, per sostenere l’agricoltura, per promuovere il fantasma dell’industrializzazione, e c’è chi li raccoglie a piene mani, e non sono certo mani nire. La piana, infatti, è «anche la storia di come una spesa pubblica manovrata da una politica spregiudicata e complice – una pacchia miliardaria – abbia contribuito ad allevare un mostro criminale che oggi ha fatturati da multinazionale (dai 30 ai 43 miliardi di euro all’anno, secondo le stime) in una Regione che per l’intero 2019 ha messo a bilancio entrate inferiori a 9 miliardi di euro». La ‘ndrangheta fa festa.

Al tirar le somme, la pacchia esiste, è una realtà sostanziosa. Tutto sta a vedere quale volto, e colore, abbia. E, per converso, scoprire, con le parole di Gesù riportate dall’evangelista Matteo, che Stancanelli cita a ragione, e chiosa con durezza per l’Italia, l’amena contrada dove la pacchia regna sovrana: «…il cuore di questo popolo si è indurito…».

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