Mario Di Calo
Visto al Teatro San Ferdinando di Napoli

Pasqual Varietà

Lluis Pasqual riporta in scena "La grande magia”, il testo più antipirandelliano di Eduardo De FIlippo. Un grande omaggio all'illusionismo del teatro di varietà, dove anche i sogni diventano finti

La Grande Magia di Eduardo De Filippo andata in scena per la prima volta al Teatro Mercadante di Napoli il 14 dicembre 1949 data dalla allora Compagnia di Eduardo; ritorna adesso in una fortunata edizione, in scena proprio nella sala che De Filippo designò a sua dimora, sita in via Foria, inaugurandone la Stagione – in scena dal 17 ottobre al 10 novembre – il leggendario Teatro San Ferdinando, sotto la direzione del registica dello spagnolo Lluis Pasqual, complice la produzione del Teatro Stabile, che ne edita un allestimento sostanzioso e ricco.

La Grande Magia è una commedia che si pone in antitesi con la lezione Pirandelliana: anche se ne accoglie temi familiari, Eduardo condivise con il Maestro agrigentino una lunga collaborazione che diede alla luce la bella commedia L’Abito Nuovo, un po’ troppo trascurata in verità, e all’interpretazione di un testo a lui molto caro, Il Berretto a Sonagli, a cui ha dedicato più edizioni, arricchendo sempre più il personaggio di Ciampa di un interpretazione forse fra le più preziose e rare che l’attore ci abbia regalato.

Con questo dramma/commedia, il nostro prende le distanze da quel dettato psico-analitico, ritornando a motivi molto cari come il varietà, la ciarlataneria, la fame atavica dei comici di teatro e attraverso questa grande metafora, come solo il teatro può rivelare, suggerire uno sguardo profondo sul significato della vita, e sulla sua precarietà; cosa sono le vite di ognuno di noi, se non una serie di fili incatenati uno all’altro, in una delicata moltiplicazione truce e beffarda? Ed è proprio l’esibizione di un presunto prestidigitatore filosofeggiante, il “Professor” Otto Marvuglia, che apre il primo atto della commedia. Un gruppo di villeggianti attende – annoiati sul terrazzo di un lussuoso Hotel, un luogo di vacanza, una terra di mezzo, il famigerato Metropole – questa preannunciata esibizione: la Grande Magia. Quella sera accadrà qualcosa d’inaspettato, la signora Marta Di Spelta, stufa della continua, fastidiosa gelosia del marito Calogero, scapperà con la complicità del Mago con il proprio amante in direzione della Laguna veneziana, e col desiderio di mai più tornare. Al povero marito non resterà altro in mano, che una scatola vuota: la moglie ricomparirà solo se lui riconoscerà un tradimento. E quando finalmente la donna, dopo anni, tornerà a casa, il marito non la riconoscerà più come tale: a lui basta solo sapere che la moglie sia rimasta intrappolata in quella scatola, vittima della sua gelosia.

Ma ci troviamo sempre dalle parti di Sik Sik l’artefice Magico o di Miseria e Nobiltà, e la regia di Lluis Pasqual sembra proprio mettere l’accento su questo argomento, non metafisico, malgrado le continue rifrazioni proposte dallo scenario, sempre a firma del regista, dove troviamo largo uso di specchi e lucine di varietà: la scena della sparizione infatti viene eseguita fra allusivi prismi ottici. I battibecchi continui fra Otto e sua moglie Zaira rinviano direttamente a un antico sapore scarpettiano, e le ire della donna si placheranno, e forse mal si adatteranno quando la situazione economica va migliorando a spese dello sfortunato Calogero Di Spelta. Sono parenti di quella stessa temperatura anche i personaggi smisuratamente tratteggiati del Commissario dal sapore aspramente siculo o il creditore Roberto Magliano, ma niente paura sono solo dei siparietti atti a riportarci nel mondo della finzione, del teatro, del gioco regolamentato.

Lo spettacolo interpretato da un’ottima compagnia, ben amalgamata, gioca tutta la sua essenza e finezza nell’interpretazione dei due protagonisti, Nando Paone e Claudio Di Palma rispettivamente Otto Marvuglia e Calogero di Spelta, tanto quanto uno va al risparmio, l’altro gigioneggia o al contrario, in un ping-pong eclettico e sportivo. Paone è un Marvuglia di grottesca e protervia comicità amara, assume su di sé tutti i caratteri del teatro napoletano, per elaborarne con ironia una gestualità e movenze facilmente riconoscibili, quel terzo occhio agitato nell’aria semanticamente rimanda a una mariuoleria ben celata. Al suo fianco vi è un interprete di non meno spiccata intuizione, Claudio Di Palma, la cui canutaggine va di pari passo con la sua sofferenza, quattro anni son trascorsi, che esplode tutta nella terza parte, in una scena di rossa colata lavica, l’attore delinea abilmente, una lucidità ed una compostezza di grande coerenza interpretativa. E quel passaggio di mano in mano di un Cilindro, emblematicamente ci riporta ad un altro capolavoro eduardiano omonimo, in cui il cappello rappresenta l’autorità, il possesso di un cappello può cambiare il destino delle cose, ridistribuisce i poteri, ora il gioco crudele e sadico è nelle mani del beffato. L’umanità può dirsi tale solo quando riconosce le proprie debolezze, e nella debolezza stringersi ad altra debolezza, questa è la vera conquista del mondo.

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