A proposito de “I domani di ieri”
Conoscete Ali Bécheur?
Incontro con lo scrittore tunisino Ali Bécheur, un grande narratore che mescola il lirismo francese alla prosa immaginifica di Garcia Marquez. «Scrivere è un modo di vivere, un mezzo di conoscenza del mondo» (Sabato sarà a Milano per Bookcity)
Quando capita di imbattersi in un libro nuovo, un romanzo insolito, fuori da percorsi già battuti, che sin dalle prime pagine possiede una voce singolare, mai udita, inassimilabile a scrittori familiari, la nostra reazione prima è di stupore. Si prosegue con avidità nella lettura delle prime pagine, ci si ferma, si rilegge qualche passaggio, per cautela, per capire, per confermarci l’emozione, la gioia, e poi non si vorrebbe essere distratti da alcunché sino alla fine della storia nella quale siamo ormai immersi totalmente. È questo l’effetto di un libro pubblicato dall’Editore Francesco Brioschi (nessuna parentela con il Brioschi anima della Guanda), milanese, un passato di Professore al Politecnico, il quale si è affacciato da pochi anni al mondo dell’editoria, con una squadra giovane e compatta, ma soprattutto con l’entusiasmo di un neofita che va alla ricerca di pepite nel mondo letterario dell’Est, in Iran, in Siria, in Persia, in Russia, in Turchia, in Tunisia, piste sinora poco percorse, se non addirittura inesplorate. E tunisino di lingua francese è Ali Bécheur, autore del romanzo dal titolo I domani di ieri (collana gliAltri, traduzione e note di Giuseppe Giovanni Allegri, a cura di Elisabetta Bartuli, pp 240, 18 Euro), titolo buono, come da subito buona, di eccellente pasta, e armoniosa, lirica, suona la scrittura.
Bécheur è nato a Sousse nel 1936. Il padre avvocato lo avrebbe voluto avvocato; il figlio, dopo la laurea in legge, ha preferito l’insegnamento universitario in scienze del diritto, per guadagnarsi da vivere ma insieme – dato che ha amato scrivere da sempre – per godere di quel minimo di libertà che la scrittura richiede, un lavoro da Penelope, lo definisce, la capacità di tessere minuziosamente trame dell’immaginazione. Ha infatti esordito a 35 anni con un romanzo dal titolo De miel et d’aloès, cui altri ne sono seguiti, tradotti in vari paesi ma poco conosciuti in patria. Qui da noi, Bécheur approda per la prima volta, anche di persona (sarà al festival milanese Bookcity sabato prossimo 16 novembre, alle 14.30 nella Sala Weil Weiss del Castello Sforzesco, introdotto da Isabella Bossi Fedrigotti), e si sottoporrà al rito canonico delle interviste.
La copertina è di richiamo, la foto in b/n di una mano di uomo, il cui indice è stretto nel piccolo pugno di un bambino. Altro dei due non si conosce. Ma quando entriamo tra le pagine, lo scorrere del tempo, un andirivieni tra passato e presente, nei continui flashback dei titoli dei capitoli, ci fa capire che la vicenda si dipana nella memoria degli anni, e in epigrafe una magnifica citazione da Chateaubriand segna un marchio indelebile dove le parole, tra vita e morte, racchiudono un destino (chi poteva dire meglio?): «Ti inumerò sotto le parole, / che della terra più lievi ti saranno, / per darti una vita, / altra da quella che ti ha lasciato». Sicuramente omaggio a chi non c’è più o forse continua a esserci.
Certamente questo tunisino, vissuto sotto il protettorato francese, in un periodo coloniale connotato da violenza e sopraffazione, in bilico tra due mondi amati e odiati insieme (“Sono un migrante”), diviso tra una doppia appartenenza o un doppio esilio, mezzo arabo, mezzo francese, mescolato a una popolazione mista, a compagni di quartiere francesi arabi siciliani maltesi, mostra comunque di non essere stato insensibile alla letteratura francese, Chateaubriand, Proust (il viaggio nella memoria, il fraseggiare tentacolare), Baudelaire, evocato nella liricità di certi passaggi, ma anche il Marquez di Cent’anni di solitudine, per la precisione descrittiva, l’esuberanza di immagini metaforiche. Così come si capisce dalle continue citazioni che ha amato la musica, le canzoni (la Piaf) e i film (Lucien Lacombe) della cultura francese ma anche europea, i piatti arabi e la cucina francese. «La scrittura è una passione che si esprime attraverso le parole. Scrivere è un modo di vivere, un mezzo di conoscenza del mondo. Leggere e scrivere, due attività indissolubilmente legate, sono funzioni vitali, come la respirazione, la circolazione del sangue. Tutto può essere fonte di ispirazione, momenti che colpiscono, idee nate ascoltando una conversazione telefonica, stralci di attualità, da accadimenti esterni. Tutto deve sedimentare, ramificare e dare fiori come un albero».
Nel romanzo, probabilmente autobiografico, come trapela dall’enfasi emotiva che accompagna certi passaggi cruciali, il rapporto padre figlio è il cardine su cui si imbastisce una storia sofferta di assenza/presenza, di incomunicabilità, di dolore e a volte umiliazioni, in una parola di conflitto generazionale. La vicenda si snoda lungo l’intero secolo del Novecento, e vede contrapposti e mai affini due individui, un padre che assurge agli onori della Storia attraverso una carriera che lo rende potente, famoso, ma poco partecipe in famiglia, e un figlio inadeguato alla grandezza di un genitore sovrastante, con lui sempre silenzioso, muto.
L’incipit è quasi involuto, refrattario a rivelare, avaro di dettagli: il lettore si deve abituare gradatamente ai differenti piani narrativi, l’io, il tu, la terza persona, deve educare a poco a poco l’orecchio a percepire le sonorità, il ritmo, le cadenze di una prosa poetica. Il percorso iniziatico, l’errabondare dell’io procede per rivelazioni progressive, l’accumulo dei ricordi ricostruisce una sorta di puzzle dove le tessere, le sfere temporali, trovano il filo conduttore nel canto dedicato alla fugacità del tempo. Un corpo a corpo, o corpo a cuore, con una assenza, una ricerca dell’infanzia perduta, un monologo preghiera, un non detto che pesa come un macigno, infine un omaggio postumo, straziante, al padre che non c’è più. «Trascorro lunghe ore a scrivere nel mio studio. Ma porto con me sempre un quadernetto. Ogni volta che un’idea, uno spunto, una parola precisa mi sovviene per descrivere, dare il senso di quella o quell’altra situazione nelle mie storie, annoto tutto. Posso scrivere sei ore filate alla scrivania. Ma per terminare un romanzo, mi occorrono due o tre anni».
La ricerca della parola precisa è percepibile in alcune frasi secche e lapidarie, testamentarie: «L’infanzia, terra d’elezione dell’amicizia», «Non si dovrebbe mai fare l’amore con il primo amore. È come voler abbracciare un ricordo d’infanzia», «Penso che ci siamo detti tutto, papà. I morti hanno diritto all’oblio»; nelle innumerevoli bellissime similitudini: «È come entrare nel petto di un uccello per rubargli il canto, pensò», «E più giù, la Senna che traccia una frontiera ondeggiante, dove s’inserisce un isolotto che separa le acque, come la prora di una nave incagliata»; infine nella sinfonia di due diversi destinati a non incontrarsi mai: «Cos’è un padre? Cos’è un figlio? …Mi amavi? Si ama il proprio figlio? E io, ti amavo io? Si ama il proprio padre? E come? Alla fine, è sempre dell’amore che si chiede… Tu invecchiavi lontano da me, sempre più lontano… non volevo vederti invecchiare, vedere il tuo sguardo spegnersi stagione dopo stagione come una candela che si consuma… non volevo che la tua decrepitezza stingesse su di me, che mi consegnassi lo specchio del mio futuro naufragio». Se nel suo passato la Tunisia ha saputo mostrare la dignità di un popolo oppresso, spogliato della propria storia, delle terra, della coscienza, della dignità e dell’identità, oggi Bécheur si augura una Tunisia affrancata, che valorizzi sopra tutto l’educazione: «La crisi più che economica è una crisi di ordine culturale. Sogno una generazione ben educata, aperta al mondo e alla cultura. Sogno una rigenerazione dei tempi. Non sono pessimista».
In testa Bécheur ha già un nuovo romanzo, ma è assai reticente: «Il tema principale sarà l’attesa. Siamo in una sala d’imbarco, all’aeroporto, l’aereo è in ritardo. Sarà una storia d’amore, in un’epoca singolare, sono strani i rapporti umani nella nostra società attuale. Non voglio dire altro».
Il Paradiso delle donne è il romanzo che l’Editore Brioschi pubblicherà a primavera, tradotto da Yasmina Mélaouah. Nelle prime pagine, Bécheur si sofferma sul senso dello scrivere e ne dà una similitudine singolare, che è anche uno sguardo sulla propria terra: «Scrivere è come disperdere figli nel deserto, / il vento di sabbia…». L’originale precedette I domani di ieri e fra i due libri c’è un curioso legame: Luz è la figura femminile che ascolta dal narratore del Paradiso delle donne il racconto della propria infanzia, ma è anche la donna alla quale sarà successivamente dedicato I domani di ieri. Nel corso del romanzo il lettore, insieme al narratore, più volte è portato a domandarsi se Luz sia un personaggio reale o sia frutto di fantasia, un alter ego al quale si confidano e si affidano ricordi. E come nel Domani di ieri, nel congedo, resta una sorta di finale aperto, una sospensione: «Una busta nella cassetta della posta, la apro. Solo una parola. Tornerò. Io aspetto». Spetta al lettore il piacere di immaginare.